Basta una domanda a rivelare la vanità di un muro grande quanto la scuola stessa, tra crediti, voti, bigini, griglie e compagnia. Bisogna scegliere
L’insegnante rivolse una domanda e lo studente rispose correttamente. La palla a quel punto passava di nuovo all’insegnante. Cosa avrebbe dovuto fare? Mettere un buon voto, ovvio. Pensò, indotto da un’atavica consuetudine, che altrimenti avrebbe potuto investigare ulteriormente, finché il bilancino non si arrestasse sull’8½ o sul 9-. Sarebbe comunque tornato a casa con un buon bottino. Ancora qualche giorno e avrebbe ultimato il giro degli interrogati, per poi galoppare su nuovi argomenti, che erano ancora tanti, il programma era vasto e le pause in vista troppe.
Invece quell’insegnante, su cui insisteva il fermo immagine dopo la risposta dello studente, si lasciò andare a una mossa bizzarra e osò sussurrare: “Sì, giusto… e quindi? cosa c’entra con te? cosa te ne importa?”.
Lo studente lo fissò stranito. Che razza di domanda. Quelle di prima le sapeva, questa invece sul libro non c’era. E poi quando mai se l’era sentita rivolgere? Avrebbe voluto abbozzare qualche luogo comune sul bagaglio culturale, il pensiero critico e la società di oggi, ma l’impaccio prevalse.
L’insegnante sentì di aver fatto crollare, semplicemente appoggiando una mano, un’intera facciata di mattoni: voti, interrogazioni, griglie di valutazione, medie aritmetiche, crediti, registri elettronici, colloqui con i genitori, quieto vivere con i colleghi, carte a posto allo scrutinio. Il fitto muro delle ataviche consuetudini si sgretolava per una domandina quasi banale, umana troppo umana: cosa te ne fai fuori da scuola? cosa ti cambia stasera?
Gli atavici a questo punto scuotono la testa. Sì, perché diffidano, e non senza ragioni, di chi s’inventa una scuola senza voti o senza zaino o senza altri dettagli. In effetti qualche mattone in meno vuol dire pur sempre un muro, sebbene un muro bucato. Copre ancora la visuale e nemmeno ripara dal freddo: il gelo di una scuola senza rapporto con la realtà.
Il muro, pensò l’insegnante, va demolito da cima a fondo, altrimenti le vicende scolastiche non saranno liberate dall’attuale valore di merce. Non poteva limitarsi a predicare che non bisogna studiare per il voto: se non toglieva l’interrogazione, erano tutte fregnacce. Per affermare che le risposte non erano soggette a prezzo, le domande non dovevano essere agguati.
C’è chi non tradisce la fidanzata perché lei lo controlla, e c’è chi la tradisce perché lei non lo controlla: e se invece si amasse la fidanzata? C’è chi ha un insegnante asfissiante e perciò ripetizioni, soldi, liti a casa, niente più sport, assenze strategiche, psicologo; e c’è chi ha un insegnante non asfissiante e perciò non fa nulla: e se rinascesse lo studium come ardore, passione, inclinazione?
Nell’imperante mentalità machiavelliana è solo un sogno. Perché un principe, se non ha polso, è un inetto, e il popolo se ne approfitta: ma entrambi sono assetti imbevuti della brama di potere. Per un essere umano giocare al gatto e al topo rimane insulso. I gatti si preoccupano di finire programmi, non di entusiasmare alunni. E così i topi avranno anche bei voti in italiano, ma quanto a innamorarsi dei classici non se ne parla nemmeno.
Per l’insegnante cominciò l’effetto domino: per togliere la finzione doveva togliere i voti, ma per togliere i voti doveva togliere le interrogazioni, e per togliere le interrogazioni doveva togliere i paragrafi, perché tutti i paragrafi cos’altro sono, per atavica consuetudine, se non cose da studiare, da ripetere, da memorizzare, da vomitare, da cui ottenere un voto? Tutto insomma fuorché cose vere. Difficile che un ragazzo ossessionato dall’idea “martedì ho l’interrogazione di filosofia” possa pensare “bello però Nietzsche! Me lo leggo”. Difficile che si apra una breccia nel cuore se non si apre una breccia nel muro.
8, 4, 6½ o impreparato fa lo stesso. Rispetto a questa messinscena, meglio che venga a galla il nulla allo stato puro. Perché se un rapporto si regge sull’inquisizione o sulla recita, tanto vale non avere alcun rapporto. Chi ha il coraggio, colleghi, di rischiare senz’altra arma che la verità di un’opera letteraria?
Nel canto XXII del Purgatorio Stazio è uno spendaccione: legge una frase di Virgilio sulla fame dell’oro e si mette talmente in discussione da smettere di sperperare. Poi ne legge un’altra che annuncia l’arrivo di una gente nuova, e ne è così segnato da mettersi a cercarla, questa gente nuova. Questo vuol dire leggere: lasciarsi cambiare, lasciarsi interrogare. Non dall’insegnante: dal testo.
L’insegnante guardava i suoi colleghi così affannati a rincorrere programmi, progetti, verifiche, voti, e i suoi studenti così abbrutiti dall’atavica consuetudine di dire “fisica 7” e mai “fisica è bellissima” oppure “vorrei capirci qualcosa”. E comprese che costruire è anche demolire.
Si ricordò che in effetti alle elementari il suo maestro non l’aveva mai interrogato, eppure la passione di conoscere lo infervorava. Si ricordò di quando, da ragazzo, gli capitava il sabato sera di leggere Leopardi davanti a una cinquantina di adolescenti, e qualcuno si commuoveva. Si ricordò di quante volte in spiaggia, la sera, un primo pomeriggio aveva parlato col sangue agli occhi, insieme agli amici o a tanti sconosciuti, di certe intuizioni scoperte in un libro.
Tutte quelle volte il muro della finzione semplicemente non c’era. E forse questo faceva con quelle domandine da uomo a uomo: picconava contro il muro di tutta la scuola, a costo di rimanere in bilico fra l’essere e il nulla, fra la polvere nelle sue mani e la meraviglia irriducibile di una pagina.
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