Durante un’ora imprevista di supplenza in una terza scientifico, ho chiesto ai ragazzi di aiutarmi a preparare un intervento al recente Convegno della Foe nel workshop dedicato a “Affettività alla prova: quali fragilità e quali risorse?”
Ho posto loro la domanda: “Avete desiderio di parlare, di confrontarvi con gli adulti su temi delicati, come l’educazione affettiva e sessuale? Se sì, quali sono le condizioni affinché il dialogo sia fruttuoso?”
Mi ha stupito la libertà con cui hanno risposto, testimoniando di avere un sincero desiderio di capire simili questioni e di confrontarsi con gli adulti. A una condizione, dicevano: che anche gli adulti si lascino mettere in discussione e siano capaci di immedesimarsi con il loro punto di vista. Proseguendo il dialogo, è emerso poi che per discutere di certi temi esistenziali occorre condividere i concetti e i presupposti dei termini che si usano, definirli previamente per poterli usare comunitariamente; percepire l’urgenza del tema (uno studente ricordava un’esperienza fallimentare di educazione sessuale proposta alla sua scuola primaria, non avendo lui e i suoi compagni domande reali in proposito a questioni più tecniche, come l’uso dei preservativi); essere seri nell’argomentazione: niente sofismi, diceva uno studente, ma puntare alla verità delle cose, non alla tenuta dialettica della propria argomentazione; saper operare dei distinguo, per cui se il tema richiede più punti di vista è importante avere il contributo di diverse discipline e non improvvisarsi tuttologi. Denominare, definire, comprendere, conoscere, giudicare… insomma, mi è parso l’iter che gli studenti si aspettano dagli adulti per affrontare questi temi nel momento in cui essi si affacciano prepotenti, spesso in modo confuso e intrisi della mentalità superficiale e ideologica che invade il nostro mondo.
Uscita dalla classe, ho ripensato ad alcune letture che nella mia carriera sono state di aiuto nella ricerca di una postura all’altezza dell’umano degli studenti, ricche di suggerimenti per impostare un dialogo fruttuoso con i ragazzi su questi e altri temi.
Innanzitutto, Eddo Rigotti, Conoscenza e significato. Per una didattica responsabile (Mondadori 2009). In particolare, il capitolo “Insegnare ad argomentare e imparare argomentando” in cui si legge: “La mia domanda è: ci impegniamo adeguatamente nel dare le ragioni del positivo, cioè nel mostrarne la rispondenza alle attese del cuore? Occorre un’educazione che dia le ragioni, non che insegni a vincere il dibattito. Occorre seguire in classe piuttosto il modello della discussione critica, incentrato sul concetto di persuasione, di adesione ragionevole” (p. 147).
E Luigi Giussani, Il rischio educativo (Rizzoli 2005). In particolare, nella parte seconda il capitolo “Crisi e dialogo” in cui si dà una definizione di dialogo fondato sulla comune “struttura nativa” degli interlocutori, rispettoso della libertà senza cadere nel relativismo e nel compromesso: “Ciò che abbiamo in comune con l’altro non è tanto da ricercare nella sua ideologia, ma in quella struttura nativa, in quelle esigenze umane, in quei criteri originari per cui egli è uomo come noi. […] Ma il dialogo è proposta all’altro di quello che io vedo e attenzione a quello che l’altro vive, per una stima della sua umanità e per un amore a lui che non implica affatto un dubbio di me, che non implica affatto il compromesso in ciò che io sono. È questa l’apertura fatta propria dalla coscienza cristiana, che parte dalla affermata unità dell’umana natura – origine, valori, destino – al di là di ogni ideologia, e che proclama come legge dei rapporti l’affermazione della persona, e quindi l’affermazione innanzitutto della sua libertà” (p. 121 ss.).
Due contributi provenienti dall’ambito della cura psicanalitica e psichiatrica, preziosi in quest’epoca di diffusa fragilità: Eugenio Borgna, Le parole che ci salvano. La fragilità che è in noi. Parlarsi. Responsabilità e speranza (Einaudi 2017), il quale propone una visione della fragilità non come dannazione, ma come risorsa per aprirsi all’altro e alla trascendenza e delle nostre parole come strumento di incontro con il giovane, a condizioni che siano esse stesse “fragili”: “Ciascuno di noi, in vita, ma in psichiatria in particolare, ha a che fare con le parole: con parole fredde e opache, crudeli e pietrificate, negate alla trascendenza e immerse nell’immanenza, o con parole leggere e profonde, fulgide e discrete, delicate e aperte alla speranza, fragili e friabili, permeabili all’incontro e al dialogo, ai cambiamenti degli stati d’animo e delle situazioni” (p. 9).
E il recente Cesare Maria Cornaggia, Dalla parte del desiderio. Da una paternità un metodo nella cura (Inschibboleth 2022), in cui lo psichiatra racconta del rapporto con il suo maestro e del rapporto con i suoi pazienti, testimoniando essere un rapporto la condizione sine qua non della formazione, dell’educazione e della cura. “Il mio maestro […] non parlava o spiegava prolissamente, ma faceva accadere dentro di noi quello che poi noi avremmo imparato a far accadere dentro ai nostri pazienti. Forse proprio questo far accadere dentro di sé qualcosa che ci cambia è imparare a fare terapia. Non potrei, infatti, definire la terapia se non come un rapporto che cambia” (p. 9).
Vi sono poi testi intramontabili di letterati e filosofi, quali C.S. Lewis, I quattro amori. Affetto, amicizia, eros, carità (Jaca Book 2021), come esempio di denominazione seria delle parole dell’affettività a partire dall’esperienza che ciascuno fa dei vari tipi di relazione fino alla definizione e alla comprensione dei termini. Ad esempio, così introduce il tema dell’amicizia: “L’amicizia nasce dal semplice cameratismo quando due o più compagni scoprono di avere un’idea, un interesse o anche soltanto un gusto, che gli altri non condividono e che, fino a quel momento, ciascuno di loro considerava un suo esclusivo tesoro (o fardello). La frase con cui di solito comincia un’amicizia è qualcosa di questo genere: ‘Come? Anche tu? Credevo di essere l’unico…’ (…) ‘Mi vuoi bene?’ significa: ‘Vedi la stessa verità?’ o, per lo meno, hai a cuore la stessa verità? Chi concorda con noi sul fatto che una certa questione, dagli altri considerata secondaria, è invece della massima importanza, potrà essere nostro amico. Non è necessario, invece, che egli sia d’accordo sulla risposta da dare al problema”.
E Sant’Agostino, Confessioni (Bur 2016), soprattutto i primi capitoli su infanzia e giovinezza, nei quali è evidente una capacità non comune di penetrare l’apparenza dei fatti e delle reazioni che suscitano nell’animo per giungere al loro pieno e ultimo significato. Vi sono pagine sull’amicizia e sull’amore, sullo studio, sulla vocazione, ma anche sul disordine affettivo e la concupiscenza, sulla dipendenza dall’alcool, che possono aiutare noi e i nostri ragazzi a imparare a superare i tabù e i preconcetti, a porsi le domande giuste, a scoprire in noi stessi i criteri di giudizio e il bisogno profondo di dipendenza e compimento che definisce l’essere di ciascuno. “Dove ero io, quando ti andavo cercando? E Tu eri davanti a me. Ma io mi ero allontanato da me stesso; non trovavo me stesso: quanto meno potevo ritrovar Te!” (V, cap. 2, p.134).
È sempre più evidente che uno dei nemici più urgenti da combattere sia l’incuria di sé stessi, la disistima per il proprio cuore, ragione e affezione, per la propria vocazione, l’assenza di domanda e il disinvestimento circa il proprio compito nel mondo, punti dolenti di tanti nostri giovani a cui il mondo adulto, e in primis quello della scuola, è chiamato a rispondere innanzitutto per sé. E le nostre discipline non hanno smesso di essere uno strumento preziosissimo per “ritornare a sé stessi”, come emerge nello scritto di Lucia, una studentessa di terza liceo che si trova a parlare con una compagna del compito che deve svolgere sulla Vita nova di Dante:
“Dante ci ha fatto parlare, ed è stato lì che ho capito cos’è la letteratura. Io e Marta ci siamo sentite grandi, ci siamo raccontate le nostre domande, e i nostri primi amori, che leggevamo insieme con ‘la chiave’ di Dante accorgendoci che tante cose da lui descritte sono le stesse che abbiamo vissuto. È vero, mi ha fatto nascere tante domande. Dante, ad esempio, proietta le persone e le cose nella luce di Dio. Capisce che non c’è nulla della realtà che non sia da Dio. Ma allora, Dio come c’entra nella di mia vita? Dove lo vedo, come mi riguarda? Come vedo io chi è di fianco a me, chi mi è dato? Lui ha lasciata aperta in me la possibilità di potermi compiacere del fatto che al mondo esista l’altro, che l’altro può essere accolto in tutto ciò che è perché è una ricchezza, un miracolo in terra. È una bella sfida, perché vorrei anche io essere capace come Dante di amare in questo modo. Di rileggere la mia vita nel suo senso ultimo. Di vivere così. Ma allora forse la Vita nova non serve solo all’interrogazione. O alla cultura. Serve a vivere”.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.