Ultima puntata sul latino a scuola. Serve un approccio non ossessivo, ma attento. E consapevole di un’eredità da trasmettere (5)

Come impostare il lavoro, però, perché non sia solo una pesante aggiunta al fardello scolastico? Qui si misurerà effettivamente la capacità degli insegnanti, chiamati ad adottare un approccio non ossessivo, non oppressivo, ma di condivisione e partecipazione.

L’esperienza ci dice che, se da un lato i ragazzi temono le difficoltà, dall’altro amano anche ingaggiarsi in impegni che li possano motivare e coinvolgere in qualche attività che riveli loro nuovi orizzonti e nuove prospettive. Su questo aspetto spesso si sono sviluppati in modo deleterio terribili fraintendimenti.



Innanzitutto non è eliminando le difficoltà che si rende interessante la scuola. In secondo luogo è un’idea purtroppo largamente diffusa, ma priva di ogni fondamento, che la scuola debba essere divertente. La scuola, invece, deve essere interessante; questo è il vero divertimento scolastico: affrontare ciò che coinvolge e interessa.



Se nelle fasi iniziali della primaria la scuola può avere aspetti ludici (in latino la scuola primaria si chiama appunto ludus, “gioco”), mano a mano che l’età degli alunni progredisce il gioco deve farsi sempre più complesso

E qui incappiamo nell’altro grande equivoco. La pesantezza degli zaini e l’ampiezza delle discipline sono l’indizio più preoccupante del fatto che si è continuato a scambiare la quantità per complessità. Abbiamo pensato che aggiungere materie fosse un arricchimento, mentre l’incisività dell’insegnamento si ottiene con poche discipline praticate con rigore, continuità e vivacità comunicativa.



Ripartono le lezioni per elementari, medie e superiori presso il Convitto Umberto Primo, Torino, 14 settembre 2020 ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO

L’accostamento al latino deve quindi nascere come un ampliamento logico, quasi inevitabile, dello studio della nostra lingua. La conoscenza progressiva di termini latini fondamentali, al di là degli aspetti grammaticali specifici, è un ottimo catalizzatore dell’attenzione e costituisce insieme alla grammatica il binario di progressione del percorso verso una sempre maggior consapevolezza della propria capacità espressiva.

Solo che l’effetto di questo lavoro non si vedrà subito, ma alla lunga e lascerà un segno profondo nella mente e nell’anima dei ragazzi. Il nodo è se anche per i docenti questo insegnamento sarà importante o verrà vissuto come un inutile appesantimento, un retorico ritorno al passato, una vuota ambizione politicamente inadatta al nostro tempo.

La sensazione che ad essere demotivati siano i nostri docenti, più ancora che i ragazzi, è piuttosto forte. Si tratta quindi di comprendere da parte dei nostri colleghi che il latino non lo si studia per parlarlo, ma per ampliare i propri orizzonti ermeneutici e logici. Certo anche altre discipline hanno un forte valore formativo, ma la specificità dello studio grammaticale dell’italiano e l’ampliamento di questo al latino è un passaggio essenziale per potenziare la consapevolezza che, dietro alle apparenze del presente, esiste una complessità che, anche se non vista, esiste e condiziona la realtà.

Il latino non va imparato per essere parlato, eppure è una lingua viva e in quanto tale è portatrice di una civiltà che, anche se ignorata, permane e permea ogni angolo della nostra interiorità comune. Il latino è appunto una lingua viva non parlata, perché vive nei testi letterari tramandatici dall’antichità e continua nell’italiano, ne configura struttura e organizzazione.

Non sarà poi strano se anche nello studio dello spagnolo, del francese, e perfino dell’inglese e del tedesco, sarà possibile scoprire incredibili affinità con una lingua che è morta solo per chi ha lasciato morire la propria anima nell’insulsa convinzione che il latino (e ancor più il greco) siano strumenti di selezione scolastica.

Certo lo sono stati in passato, ma nell’era delle Disruptive Technologies fare il gioco di chi alimenta la fragilità culturale per dominare gli altri non sembra né democratico, né in linea con la prospettiva delle competenze di cittadinanza, se è vero che per essere cittadini è primariamente necessario essere in grado di esprimersi, di comprendere, di pensare e di dialogare con competenza nella propria lingua.

Forse non a tutti è chiaro che il latino parlato nella nostra penisola dopo più di duemila anni è proprio l’italiano. Per comprendere l’italiano e farlo proprio come espressione autentica della propria anima, ne sono assolutamente convinto, è inevitabile accostarsi senza pregiudizi al latino.

Chiudo con una frase del filosofo Seneca, che dovrebbe essere il talismano per ogni docente (Ad Lucilium, 7.8). L’invito è a scendere dalla cattedra e a prendere per mano i ragazzi. Chi pensa che il ritorno del latino sia una riaffermazione di metodologie obsolete si sbaglia e rischia di compromettere un’operazione che ha un valore culturale che va oltre gli aspetti ideologici che di tanto in tanto sembra riaffiorino nelle polemiche che hanno caratterizzato l’introduzione delle nuove Indicazioni nazionali.

È un invito anche a noi docenti a ritornare a quella visione maieutica della relazione educativa che sembra negli ultimi anni essere andata perdendosi sullo sfondo, in dissolvenza:

Recede in te ipse quantum potes; cum his versare qui te meliorem facturi sunt, illos admitte quos tu potes facere meliores. Mutuo ista fiunt, et homines dum docent discunt”.  “Per quanto ti è possibile ritirati in te stesso; frequenta coloro che ti renderanno migliore, invita coloro che tu stesso potrai rendere migliori. Queste cose avvengono in reciprocità e gli uomini mentre insegnano imparano”.

Chi non sa imparare, difficilmente potrà insegnare il latino; e non solo il latino.

(5 – fine)

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