L’autore risponde all’articolo di Marco Ricucci sul latino. Esso consente di dare quella profondità qualitativa allo studio della lingua che oggi manca

La parola italiana desiderio etimologicamente viene dal latino de sideribus, cioè dalle stelle, dove il de è la preposizione che, assieme al caso ablativo, indica il moto da luogo dall’alto verso il basso, cioè una discesa, un movimento dal lontanissimo al prossimo e dall’altissimo fino a me. Altrimenti potrebbe essere inteso come un de- privativo ed essere dunque tradotto come mancanza delle stelle. In ogni caso è questo il motivo per cui quando si vede una stella cadente si esprime un desiderio.



Alla mia prima ora di lezione di latino parto sempre con questa etimologia (ed altre altrettanto interessanti), ma prima di insegnarla, faccio scrivere agli studenti una loro definizione della parola desiderio e sempre, immancabilmente, la maggior parte di loro scrive così: “Qualcosa che si vuole avere”.

Da notare i termini “qualcosa”, in senso strettamente materiale, oggettuale, e il verbo “volere”. Il desiderio è dunque percepito comunemente come la volontà che si muove per ottenere una cosa. Quando insegno l’etimologia della parola, vedo sempre lo stupore farsi largo nella facce degli studenti, spesso l’entusiasmo; addirittura una studentessa se lo tatuò sull’avambraccio!



Improvvisamente quella parola, ma soprattutto quell’esperienza, si allarga, si chiarisce, si illumina, sprofonda ad un livello di significato fino a quel momento del tutto inimmaginabile. Non si tratta più di un’espressione della mia volontà, ma piuttosto dell’avvertimento di una mancanza.

Di che? Non lo sappiamo, sappiamo solo che qualcosa ci manca. Ma il sentore di questa mancanza lo possiamo provare, perché in qualche modo dalle stelle, cioè da una incolmabile lontananza, ci raggiunge un non so che, un richiamo, un’eco di un bene per noi, che tuttavia ci sfugge. Questo è il vero significato della parola desiderio.



Insisto, è commovente vedere come la spiegazione di questa etimologia illumini il volto degli studenti, perché, improvvisamente si chiarisce loro un’esperienza fondamentale della loro vita.

Proseguo la lezione spiegando che, normalmente, abbiamo delle parole un uso superficiale, limitato alla funzione comunicativa. Ma in questo modo ci perdiamo la parte più bella della parola, che consiste nello svelarci il mistero della realtà. L’uomo conosce la realtà innanzitutto tramite la parola, dunque più approfondisce il senso delle parole, più strumenti ha per andare al fondo della realtà.

Racconto loro, dunque, una storia. Immaginiamo un bambino appena nato. Qual è la prima parola che impara? Mamma. Cosa significherà per lui mamma, nel momento in cui la pronuncia per la prima volta? Protezione, calore, cibo. Ma seguiamo questo bambino che, giorno dopo giorno, cresce nel rapporto con sua mamma: cade e si fa male e la mamma è lì a prenderlo in braccio e a consolarlo; poi cresce ancora, va a scuola e la mamma lo aiuta nei compiti; poi comincia ad avere i primi problemi con i compagni o a innamorarsi di qualche compagna, e la mamma lo consiglia, lo riprende, lo corregge; poi comincia a litigare con sua mamma, magari anche duramente, comincia la misteriosa incomprensione dell’adolescenza; poi lavora, si sposa, lascia la casa e la mamma; e la mamma invecchia, si ammala. E lui corre al suo capezzale, finché si arriva all’ultimo giorno e per l’ultima volta quel ragazzo, ormai un uomo, si rivolge a lei e le dice: “Mamma”. È la stessa parola pronunciata all’inizio, le stesse lettere, lo stesso suono. Ma – chiedo ai miei studenti – ha lo stesso significato? No! Perché? Perché l’ultima è infinitamente più ricca, più profonda, più consapevole. Perché fra la prima parola e l’ultima c’è tutta la storia di quel ragazzo con la sua mamma!

Lo stesso è per le parole, tutte. Se non ne conosco la storia, se non ne posso apprezzare lo spessore, l’origine, il percorso che hanno fatto nel tempo, non le possiedo veramente, ma così non possiedo veramente la realtà, la mia realtà, la mia vita!

Vincent Van gogh, “Campo di grano con volo di corvi” (1890, particolare)

Questo è solo uno dei motivi per cui ritengo lo studio del latino, reintrodotto fin dalle scuole medie (in modo facoltativo), un elemento molto positivo. Leggo del fatto che il problema della scuola non sarebbe risolto da questa proposta, che sarebbe solo un ideologico, sterile e nostalgico ritorno al passato. Mentre il problema della scuola sarebbe che gli studenti non sanno l’italiano, fanno fatica a comprendere un testo, non sanno distinguere fra soggetto e complemento oggetto. E la soluzione sarebbe aggiungere ore di italiano, anziché reintrodurre il latino.

Sembra il vecchio adagio per cui a tutti i problemi della scuola si debba rispondere con l’aumento della quantità: le scuole cadono a pezzi, dunque bisogna dare più soldi; i docenti non sono adeguati, dunque bisogna pagarli di più; gli studenti non sanno l’italiano, dunque bisogna aumentare le ore di italiano.

Mi pare, invece, che un approccio molto più realistico sia porsi una domanda: non quanto italiano fanno i nostri studenti, ma come lo fanno e cosa viene fatto loro nelle ore di italiano (che sono assolutamente sufficienti, per carità!). Se l’insegnamento dell’italiano alle medie si limita, come avviene ad oggi, a definire il genere di un testo (storico, del mistero, horror, giallo, etc.), a rintracciare in un testo le sequenze narrative, le figure retoriche e a rispondere a domande di comprensione del testo, le cui risposte sono già suggerite nelle domande stesse, potremo aumentare a dismisura le ore di italiano e non otterremo altro che un sistematico rigetto da parte dei nostri studenti.

Quando mai si chiede ai nostri ragazzi di comprendere e paragonarsi con il significato del testo? Quando mai gli si chiede di interpretarlo e di riflettere sul nesso che c’è fra quelle parole e la propria vita? E perché mai, dunque, uno studente sano di mente dovrebbe interessarsi a questa materia, tanto da assimilare faticosamente la competenza che vi è nascosta dentro?

Scrive una mia studentessa (quinta superiore) in un tema: “Ma perché a scuola non ci insegnano a gestire il mondo interiore? A capire le nostre emozioni, invece di sentirci sempre sbagliati? Sappiamo a memoria le date delle guerre, ma non come affrontare quelle che abbiamo dentro. Ci insegnano a calcolare le probabilità, ma nessuno ci prepara a quei giorni in cui tutto sembra andare storto. Ci parlano per anni della forza di gravità, ma mai di quella che ci tiene bloccati nei giorni bui. Ci allenano a competere, a vincere, a primeggiare, ma non a fermarci, a respirare, a chiederci come stiamo davvero. Ci obbligano a memorizzare regole grammaticali, ma non ci insegnano come dare un nome a quello che sentiamo dentro. Studiamo i moti dei pianeti, ma non sappiamo come muoverci quando ci sentiamo persi. Così cresciamo con la testa piena di informazioni, ma l’anima trascurata”.

Dare un nome a quello che sentiamo dentro, curare l’anima. Ecco di cosa hanno bisogno i nostri studenti. E non si tratta di aggiungere uno sportello psicologico, che spesso non fa altro che danni! Si tratta di affrontare questo livello dell’umano attraverso le materie che insegniamo, facendo italiano, e, sì, facendo latino, lingua latina, così come matematica, storia e tutte le altre discipline.

Se così fosse, allora ben venga il latino, che è la storia dell’italiano e ne è dunque la ricchezza e la profondità. O vogliamo negare il valore della storia?

P.S.: Fra l’altro non ho mai trovato modo migliore di insegnare la differenza fra soggetto e complemento oggetto in grammatica italiana, che quando insegno anche latino e posso far vedere il caso, per cui in latino il soggetto ha una desinenza diversa rispetto al complemento oggetto, diventa molto più semplice spiegare la diversa funzione logica!

P.P.S.: non sono laureato in lettere classiche, insegno latino, ma non ne sono un cultore.

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