Il recente convegno di ANP Toscana, dal titolo “Didattica e neuroscienze: tra approcci consolidati e nuovi orizzonti”, consegna alla scuola molte riflession

Si è tenuto nei giorni scorsi a Firenze un interessante convegno, dal titolo “Didattica e neuroscienze: tra approcci consolidati e nuovi orizzonti”, organizzato da Anp Toscana, che ha mobilitato per l’occasione alcuni fra i più qualificati interlocutori dell’una e dell’altra appartenenza.

La questione è nota: per molto tempo, gli studi in materia di apprendimento si sono fondati sulla osservazione sistematica, dall’esterno, dei comportamenti degli allievi e delle loro reazioni agli stimoli cognitivi ad essi proposti. In sostanza, uno sforzo per comprendere quali fossero le tecniche di insegnamento e le condizioni di contesto più favorevoli per generare conoscenza (e poi, più di recente, per sviluppare competenze).



Da una quindicina d’anni a questa parte si è venuto affacciando un approccio radicalmente diverso, basato sulle neuroscienze, cioè sullo studio della struttura e del funzionamento del cervello: un’indagine sul meccanismo della conoscenza partendo dall’interno, dalla struttura in cui si sviluppa il processo, anziché dalle sue manifestazioni esterne.



Questi studi hanno fatto in breve tempo progressi notevoli, portando alla luce aspetti fino ad ora poco considerati e arrivando a proporsi, in ipotesi, come alternativi alla pedagogia ed alla didattica tradizionali. Con, in aggiunta, il fascino dell’approccio scientifico rispetto a quel quid di empirismo che ha a lungo connotato gli studi pedagogici.

Non che vi sia unanimità fra gli studiosi al riguardo: ed il convegno di Firenze si proponeva appunto di mettere a confronto lo stato dell’arte dei due mondi e di cercare di valutarne le potenzialità rispetto ad alcune tematiche chiave.

Ad ognuna di queste tematiche – otto in tutto – era dedicata una sessione di lavoro, in ciascuna delle quali erano chiamati a confrontarsi un pedagogista ed un esperto di neuroscienze. Si andava dalla dipendenza dai social alla memoria, dal tema della bellezza a quello dell’intelligenza numerica, dall’attenzione all’apprendimento, ed altro ancora.



Non era ipotizzabile che si giungesse a formulazioni conclusive, che infatti non vi sono state. Sia l’uno che l’altro approccio scontano al momento quello che è un prerequisito metodologico comune ad entrambi: e cioè quello di partire dall’osservazione di quod plerumque accidit, cioè, in definitiva dell’alunno medio, quello che una volta si sarebbe detto “normale”.

Ma, come ben sanno tutti coloro che si occupano di scuola, quel tipo di alunno è quello che dà meno problemi: e, sia che le metodologie proposte discendano dall’osservazione dei comportamenti più diffusi, come nella pedagogia tradizionale, o dallo studio dei dati misurati nell’analisi propria delle neuroscienze, esse in genere funzionano accettabilmente. Costituiscono in qualche modo delle teorie che si autoavverano, in quanto partono da ciò che materialmente accade o che è sperimentalmente osservabile per estrarne principi generali ed indicazioni di lavoro.

I problemi di apprendimento riguardano invece quelle fasce, sempre più numerose, di alunni che sono portatori di bisogni altri rispetto alla norma, sia essa pedagogica o neuroscientifica. Di essi, al momento, siamo in grado di descrivere, e forse anche spiegare, le caratteristiche associate con il fatto che non apprendono, o apprendono con difficoltà: ma non abbiamo ancora ricette per risolvere i loro problemi, se non in modo marginale. E la spinta verso la scolarizzazione universale fa crescere il numero di coloro che non trovano nelle metodologie pensate per l’alunno medio la risposta alle proprie domande individuali.

Perché, in fondo, resta vero che si apprende solo quando l’insegnamento offre risposta alla domanda di senso del singolo. Vi sono bisogni elementari, come quelli riassunti nella triade storica, del leggere, scrivere e far di conto, la cui rilevanza è universale e che trovano quindi più agevole risposta di apprendimento; ma, quando ci si allontana dai fondamentali per navigare nei mari incogniti del pensiero teorico astratto e delle sue elaborazioni, non tutti sono in possesso degli strumenti necessari. E sia che questo deficit venga descritto in termini di inadeguatezze di approccio o di particolarità strutturali delle aree cerebrali chiamate in causa, quelle che vengono proposte sono “spiegazioni” più o meno convincenti, ma non “rimedi”, cioè strumenti per superare quelle difficoltà in ciascun singolo individuo. Almeno per ora.

Se il dibattito non ha fornito una risposta risolutiva ai molti interrogativi emersi (e non poteva farlo), ha però agevolato la consapevolezza dell’estensione e della complessità dei problemi. Ed ha stimolato anche, particolarmente in alcuni degli interventi, riflessioni di spessore.

Tale, per esempio, quella sulle ricadute delle tecniche di lettura sui processi cognitivi: il nostro modo occidentale di scrivere e di leggere ha strutturato nel tempo un approccio cognitivo che parte dal particolare per arrivare al significato generale. Altri sistemi di scrittura, non alfabetici, devono invece partire dal senso generale per decodificare il particolare.

E ancora: l’invenzione della stampa ha dato la spinta alla Riforma protestante, ponendo il testo delle Scritture a disposizione di tutti. Lo sviluppo della Riforma ha a sua volta generato nel tempo la scolarità universale e l’idea di democrazia. I cinque secoli più fecondi del pensiero e della storia dell’Occidente sono figli di quella risorsa tecnologica. La struttura odierna dell’ipertesto e l’accesso digitale, non sequenziale, ai dati comportano il rischio di destrutturare quel sistema di riferimento.

Internet pone a nostra disposizione una grande quantità di informazioni, che sono dati, cioè risultati, ma a cui non si arriva tramite processi di elaborazione concettuale. La rete ci restituisce con facilità quantità enormi di dati su qualunque ambito, ma non offre di per sé significati.

Si perde per questa via la capacità di elaborare, a livello del singolo, processi cognitivi di tipo tradizionale, mentre diventa dottrina universale quel che si trova sul web, con la possibile conseguenza che l’esercizio del pensiero individuale e il concetto stesso di democrazia ne vengano travolti. Chi controlla i motori di ricerca o le intelligenze generative artificiali controlla di fatto la conoscenza.

Altro tema molto dibattuto è quello delle conoscenze rispetto alle competenze. Negli ultimi anni si è posto molto l’accento sul “saper fare”, che è il risultato di una routine operativa, perdendo in parte di vista il “sapere perché fare”, che richiede invece una riflessione, almeno in parte fondata su un giudizio. Volendo usare termini forse sovradimensionati, un esercizio di ragion pura, anziché solo di ragion pratica. Il saper fare favorisce la convergenza verso le soluzioni più efficienti, e quindi spinge all’uniformità; il sapere perché fare favorisce l’individualità del ragionamento. La scuola deve curarli entrambi, con le diverse sottolineature richieste dai diversi indirizzi di studi: ma non deve cercare la scorciatoia del risultato più rapido ed efficace, a scapito del più faticoso e più lento processo di ricerca.

Un tema chiave, emerso a più riprese, ma in modo particolare nell’intervista conclusiva, riguarda il tema del valore formativo della bellezza, in tutte le sue forme: artistica, musicale, del linguaggio, del paesaggio. Le neuroscienze rendono conto del funzionamento del cervello, ma la persona umana non è solo il suo cervello. Essa vive in un contesto di stimoli che non sono tutti misurabili e calcolabili e che sono di vitale importanza per nutrirne l’individualità e la libertà.

Fra questi, valore dominante è quello della bellezza, per la sua forza e la sua capacità di elevare e plasmare l’essenza stessa del soggetto: ma essa non è computabile né commisurabile. Botticelli o Mozart non offrono risposte di vita utili in senso immediato, ma nessuno si accosta ad essi senza provare una commozione profonda ed esserne in qualche modo trasformato. Fra i compiti più importanti della scuola deve quindi esservi proprio l’attenzione e l’educazione a ciò che è bello, in ogni possibile accezione.

In sintesi, ed in definitiva, da un tema apparentemente tecnico, come quello che dava il nome al convegno, è emersa una pluralità di stimoli in senso lato umanistici e ricchi di stimoli alla riflessione. Non fosse altro che per questo – e c’è stato molto di più – ne sarebbe valsa la pena.

 

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