Le nuove Indicazioni nazionali appaiono un tentativo di mettere al “riparo” la scuola italiana da derive in atto e retaggi distruttivi. Impresa non facile
Le innovazioni che nei vari sistemi scolastici in questo periodo vengono proposte andrebbero collocate e giudicate nel contesto ampio della crisi dell’importanza dell’educazione nei Paesi occidentali. Non alla luce di schieramenti aprioristici e neppure talvolta delle dichiarazioni dei loro stessi promotori. Cosa pensare dunque delle nuove Indicazioni nazionali che, come tutto nel nostro Paese, sono state subito lette in una logica molto localistica, sulla base del solito schieramento guelfi-ghibellini?
In via preliminare tutti sappiamo che si chiamano “Indicazioni” non a caso, ma perché di fatto non sono cogenti, proprio nella loro fondazione teorica: il passaggio dai programmi (alle “Indicazioni”) è stato dovuto all’ipotesi – tutta da verificare – che una maggiore possibilità di variazione da parte degli insegnanti potesse portare ad una maggiore efficacia dell’apprendimento, grazie alla possibilità di adattarsi ai diversi contesti ed esigenze.
La Costituzione c’entra poco. Si tratta di una variazione, se si vuole, della persistente mitologia della libertà di insegnamento, generata – giova ricordarlo – dall’opposizione alle pratiche totalitarie del periodo fascista.
Del pari tutti sappiamo che non c’è nelle norme quadro assolutamente nessun elemento di cogenza, né qualitativa né quantitativa, e che in Italia gli insegnanti, se vogliono, possono impunemente decidere di insegnare quanto, cosa e come vogliono. Del resto questa è una delle ragioni per cui si trovano ancora giovani disposti a farlo. Una volta la seconda prova dell’esame di maturità costituiva l’unica possibile pietra di inciampo relativamente significativa nel percorso scolastico, oggi neanche quella. Dopo i sogni degli anni 70-80 in cui l’insegnante doveva essere ricercatore ed autore del proprio libro di testo, oggi la realtà è che la libertà di insegnamento si sostanzia nella scelta del libro di testo, cui ci si attiene in modo significativo. E non è detto che questo sia un male.
Questo per dire che le operazioni sulle Indicazioni, più che desideri di controllo para-poliziesco, sembrano – da chiunque vengano perpetrate – soprattutto come un tentativo di egemonia culturale ed intellettuale e come tali vanno valutate.
In questo caso, l’area delle STEM è stata sostanzialmente risparmiata ed anche si può leggere la valorizzazione della formazione professionale per il lavoro, con il 4+2 come un suo rinforzo. Mentre l’area delle humanities è al centro – si dice da parte dei critici – di un tentativo anacronistico di ritorno al passato, abbandonando i progressi fatti.
Il fatto è che il concetto di progresso in quest’area (oltre che in generale) è alquanto in crisi, e si può dire che negli ultimi decenni è sostanzialmente consistito in una forte intellettualizzazione ed astrazione del sotteso metodologico degli insegnamenti: grammatiche e strutture dell’insegnamenti storico-sociali sono state sottoposte a variazioni in questo senso.
Si pensi al viraggio strutturalista degli insegnamenti letterari, con operazioni prevalenti sul testo in un contesto destoricizzato ed all’impostazione degli insegnamenti storici orientati allo studio delle strutture delle società, secondo il modello degli studi sociali americani. Questo sulla carta, naturalmente. Il dubbio che è sorto è che questa ispirazione non sia stata vincente né efficace e che possa essere alla base dell’evidente crisi di questi insegnamenti. Donde l’ipotesi – che non è assolutamente solo del centrodestra italiano – di tornare, sia pure con le opportune variazioni, ad un modello di humanities più concreto, più coinvolgente anche emotivamente, abbandonando ipotesi quali quelle di fare degli allievi dei piccoli ricercatori o degli anatomisti dei testi, che si sarebbe rivelata infruttuosa anche presso una fetta consistente di insegnanti.
In attesa di riuscire a rispettosamente raccapezzarsi nel profluvio di parole e di pagine – forse davvero troppe e con una qualche enfasi, quasi come risultato della volontà di uscire da un complesso di inferiorità dovuto all’egemonia, nella scuola occidentale, tutta della parte avversa – qui due sole osservazioni.
Sicuramente nel campo della lingua e dell’uso della letteratura, già qui Daniela Notarbartolo ha passato in rassegna alcuni punti. Chiunque in questi anni abbia leggiucchiato sul tema non avrà certo trovato nelle Indicazioni novità clamorose e retrive. Importanza dell’apprendimento a memoria, rivalutazione e difesa del corsivo, etc. non sono una peculiarità della destra politica italiana. Qui importa soffermarsi sull’uso dell’insegnamento della letteratura.
Fra gli anni 70 e 80 nelle scuole si è registrato il trionfo della tendenza ad impostare questo studio in chiave di analisi strutturale. I residui cultori della materia ricorderanno il mitico Il Materiale e l’Immaginario in 10 volumi. Un testo probabilmente quasi inaccessibile agli universitari di oggi, che insegnanti progressisti e benissimo intenzionati hanno utilizzato in quel periodo soprattutto, ahimè, nei settori meno a ciò predisposti, cioè nella formazione tecnica e professionale, considerandolo come uno strumento di emancipazione sociale, per mezzo dell’accesso diretto ai livelli più alti ed intellettualmente sofisticati della cultura contemporanea.
Un utilizzo della letteratura in chiave di analisi formale, coerente con tutta la cultura novecentesca del campo, sia in termini di analisi che di produzione.
Oggi, come reazione, assistiamo alla revanche della letteratura di narrazione, con molti titoli in testa alle graduatorie di vendita – dove una volta stavano Calvino ed Eco – che ricordano i mitici Salani degli anni Trenta. Non pare pertanto da rifiutare a priori un tentativo di utilizzare la letteratura in chiave formativa, anche come educazione morale ed affettiva. Le prediche benintenzionate, e probabilmente controproducenti, da somministrarsi agli adolescenti a proposito di tutte le più diverse educazioni sono forse meno efficaci dei famosi schieramenti su Achille ed Ettore che si facevano una volta alle medie, nei quali si delineavano con chiarezza i caratteri degli allievi e si mettevano in vera discussione le diverse posizioni morali.
Per non parlare di Robespierre, Danton, Marat e Napoleone. O di Cavour, Garibaldi e Mazzini. A riprova del fatto che non si tratta di invenzioni di una destra revanchista. Tutte queste tesi peraltro sono rinvenibili in Kieran Egan, Getting it wrong from the beginning (Yale University Press 2002).
Quanto al latino, si sa che gli insegnanti italiani hanno continuato a somministrare le buone vecchie analisi grammaticali e logiche, anche se in forme sempre più astruse e complessificate, soprattutto grazie all’impostazione dei libri di testo. Il latino potrebbe essere visto come una forma di applicazione delle loro regole astratte sul terreno concreto di una lingua (potrebbe servire anche il tedesco, se è per quello). Dunque un ottimo esercizio di problem solving.
Non ci si può nascondere però che, se reso opzionale, potrebbe costituire una forma di nascosta (e qui sta il male) canalizzazione anticipata, come è stato nei primi anni dopo la riforma della scuola media, soprattutto a causa della sua aura intimidente presso le famiglie.
Ha lasciato invece perplessi nel dibattito preliminare all’uscita delle Indicazioni stesse l’accanimento sulla geostoria. In realtà sotto questo nome stanno due tendenze che hanno poco a che fare con l’origine francese di questi studi (histoire-géo), che cercava di dare una lettura più profonda e strutturale degli avvenimenti umani, ma che probabilmente non pretendeva di essere somministrata tout court ad adolescenti indifesi.
Queste tendenze possono essere definite da un lato come una forma di terzomondismo spinto, che porta all’avversione all’Occidente, di cui sono evidente modello le università americane e britanniche; e dall’altro lato come una forma di svalutazione di apprendimenti specifici, in nome dell’“apprendere ad apprendere” senza contenuti.
Una buona impostazione dovrebbe ben riuscire a trovare una via di mezzo fra l’ossessione mnemonica di minuzie ed il vaniloquio dell’aria fritta. Ma siamo sicuri che gli insegnanti poi si siano dedicati in questi anni allo studio della storia cinese o delle vicende islamiche, trascurando per questa ragione il povero Oberdan? In realtà, grazie alla forza di inerzia, i focus sono sempre stati su Italia ed Europa con particolare attenzione a… Sumeri e dinosauri.
In questo campo l’aspetto meno convincente è la forte sottolineatura dell’esperienza italiana. Abbiamo bisogno di comprendere la vicenda dell’Europa tutta e dell’Occidente più in generale, senza il quale contesto la vicenda italiana risulta poco comprensibile ed impoverita, oltre che decisamente meno interessante per gli allievi di oggi. D’altra parte gli uomini del nostro Risorgimento riuscirono nel loro intento per la loro caratura internazionale e per la loro capacità di collocarsi nel contesto europeo. Oggi abbiamo giovani che passano i weekend nelle capitali europee senza connettere ciò che vedono a ciò che accade nel loro Paese, nel complesso dell’Europa ed a ciò che accadrà nell’immediato futuro.
Il problema dell’insegnamento della storia in Italia è sempre stato peraltro la priorità data alla letteratura come unico elemento di unità del Paese, secondo l’impostazione desanctisiana (anni 60 dell’Ottocento!), e pertanto la sua marginalità. È sotto gli occhi di tutti il fatto che ancora oggi viene insegnata, nonostante l’esistenza delle lauree e delle facoltà di storia, soprattutto da letterati o filosofi e soprattutto considerata una materia di secondo livello intellettuale; proprio mentre operazioni di divulgazione come quelle di Alessandro Barbero riscuotono, nonostante tutto, un grande successo mediatico, testimonianza di un sincero interesse popolare
In realtà nelle posizioni fortemente critiche che si registrano secondo schieramenti ormai ampiamente prevedibili, ha un grosso peso l’opposizione al sistema di valutazione più stringente che è stato reintrodotto e che con le Indicazioni ha un rapporto solo tangenziale. Un sistema che viene accusato di ogni nefandezza formativa e di crudeltà nei confronti di indifesi pargoli: si vorrebbe un primo periodo formativo completamente scevro di elementi di valutazione realistici e perciò, ove necessario, anche negativi. La scuola di base come “Paese dei balocchi”, prodromo di una caduta agli inferi successiva.
Rimane da riflettere se questo tentativo di restituire le humanities all’onor del mondo possa essere efficace. In realtà è difficile combattere con le scienze e le tecnologie, che oggi sembrano aprire le porte al controllo dello spazio ed addirittura del corpo umano. Anche se c’è chi ritiene che, senza una cultura umanistica, i rischi possano essere molti. Forse sarebbe utile aver sentito parlare della greca hybris.
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