L’esito di una riflessione, ispirata a Cormac McCarthy, all'incontro plenario del personale della Fondazione Grossman su come si fa scuola
“Non lo so. So solo che vedo naufragi da tutte le parti e sono determinato a non naufragare”. Così risponde Ben, protagonista de Il tagliapietre (Einaudi, 2025) di Cormac McCarthy, alla moglie che chiede: “Il mondo è davvero un posto così ostile?”.
Il tagliapietre, dramma in cinque atti, uscito in traduzione italiana solo quest’anno ma scritto da Cormac McCarthy alla fine degli anni 80, si è rivelato di grande utilità nella riflessione condotta il 1° settembre all’incontro plenario di tutto il personale della Fondazione Grossman, desideroso di non naufragare di fronte alle contraddizioni, alle crisi, alle guerre che si presentano nel mondo vicino e lontano, di ritrovare le ragioni della speranza e la certezza dell’orizzonte ultimamente positivo del proprio compito educativo.
Ben ha imparato il senso del lavoro e la speranza dal nonno, Papaw, il vecchio tagliapietre, un uomo che ha ormai compiuto i cent’anni e che ha sempre interpretato il suo mestiere come un compito, una vera e propria vocazione.
Nel tempo dell’azione, a inizio anni 70 nel Kentucky, la famiglia Telfair, afroamericana, sta affrontando le varie dinamiche sociali legate ai grandi movimenti per l’effettivo riconoscimento dei diritti delle persone di colore e in ciascuno dei suoi membri si percepisce viva la domanda: “Che cosa farne della libertà ottenuta?”, cui ognuno risponde a suo modo.
Papaw, il primo uomo nato libero della sua famiglia, concepisce il lavoro come collaborazione e perfezionamento della creazione divina, assecondando con lo scalpello l’ordine e lo scopo con cui Dio ha fatto le cose. In questo ripone la sua libertà e la sua speranza: “per un uomo che ha voglia di lavorare – dice – c’è sempre speranza”.
Il figlio di Papaw, Big Ben, si distacca dalla tradizione del padre e cerca l’emancipazione economica attraverso gli affari, abbandonando la pietra per trovare successo con la produzione del cemento e finendo invece in un mare di guai.
Il protagonista, Ben, figlio di Big Ben, dopo aver abbandonato gli studi di psicologia impara dal nonno il mestiere del tagliapietre e, con esso, una comprensione più profonda della vita e che lavorare con dedizione ha senso anche di fronte al mistero e al dolore.
Il nipote Soldier, figlio adolescente della sorella di Ben, intende invece la libertà come sregolatezza e autonomia dalla famiglia, e ciò lo porterà a un tragico destino.
Il tagliapietre ha una sceneggiatura complessa, perché sul palcoscenico si snodano le vicende di tre anni della famiglia Telfair e al contempo è presente il doppio di Ben che commenta quanto avviene in scena. Nel primo atto, in un suo commento, a proposito del nonno dice: “Ho sempre voluto essere come lui. Anche da bambino”. Gli attribuisce una consapevolezza rara: “Ha riflettuto molto sul suo mestiere e in questo è decisamente fuori dal comune” e riconosce l’eccellenza del suo lavoro, affermando: “Posso guardare un muro o le fondamenta di una stalla e distinguere il suo lavoro da quello di altri scalpellini perfino all’interno dello stesso edificio.
È evidente che il desiderio di seguirne le orme nel mestiere nasce in Ben dallo stupore e dalla gratitudine per aver visto un uomo lavorare non appena per il guadagno economico, per la retribuzione, ma con generosità, gusto, consapevolezza, intelligenza, precisione fin nel dettaglio.
Tale generosità nel lavoro difficilmente è l’esito di uno sforzo a svolgere bene il proprio ruolo, piuttosto affonda le sue radici nella consapevolezza che il ruolo è espressione di un compito cui ciascuno è chiamato per perfezionare la creazione.
Provoca chi si occupa di scuola un’altra frase di Ben: “Non fosse stato per lui avrei fatto l’insegnante. Ci è mancato poco. Ci è mancato poco”. Non pare casuale l’accostamento di tali mestieri: lo scalpellino e l’insegnante. Entrambi, infatti, in qualche modo esprimono la loro generosità, la loro eccellenza se obbediscono. A che cosa, innanzitutto?
Dice Ben, sempre nel primo atto: “Perché la vera arte muraria non è tenuta insieme dal cemento bensì dalla gravità. Vale a dire dalla curvatura del mondo. Dalla materia stessa della creazione. La chiave di volta che chiude l’arco è premuta al suo posto dal pollice di Dio”.
E poco oltre: “Stando al Vangelo del vero scalpellino Dio ha disposto le pietre nella terra perché gli uomini se ne servissero e le ha disposte nei loro piani di stratificazione per mostrare allo scalpellino come deve accedere. Un muro è fatto allo stesso modo in cui è fatto il mondo. Una casa, un tempio”.
Se lo scalpellino per eccellere deve obbedire alla pietra, alla gravità, alla materia così come il Creatore l’ha fatta, l’insegnante, l’educatore (e in una scuola tutti hanno un compito educativo) deve obbedire all’uomo così come Dio lo ha fatto, alla sua natura esigenziale, a quelle esigenze di verità, bellezza, giustizia, bontà che il Creatore ha iscritto nell’io di ciascuno giovane a lui affidato. È insomma il cuore dell’uomo il criterio che deve guidare ogni scelta scolastica, nella didattica, nell’organizzazione, nella gestione degli spazi.
Tale consapevolezza implica che nessuno può educare da solo: quanti occhi devono osservare per comprendere come si esprimono in ogni giovane tali esigenze, quante competenze servono a individuare e realizzare strumenti e percorsi per favorire strade di soddisfazione a tali esigenze!
Nell’ultimo atto, il V, Ben racconta un suo sogno. Dopo aver commesso un errore fatale con suo nipote Soldier, si immagina che nel giorno del giudizio l’unica domanda che il Dio di tutte le creature gli porrà, sarà: “Dove sono gli altri?”: “E mentre te ne stai lì in piedi da solo con il tuo libro formulerà – magari nemmeno sgarbatamente – quest’unica domanda: Dove sono gli altri? Dove sono gli altri. Oh ho avuto tempo in abbondanza per riflettere su questa terribile domanda. Perché non possiamo salvarci a meno di salvarci tutti. Ho fatto questo sogno ma non l’ho ascoltato. E così ho smarrito la strada”.
All’inizio di quest’anno scolastico, considerando i tempi duri e bellicosi che ci tocca vivere, oltre a riscoprire il senso profondo del proprio compito, a ritrovare nel cuore dei propri giovani il criterio di ogni scelta scolastica, per non naufragare, per non perdere la strada è urgente porsi la domanda: “Dove sono gli altri?” considerando tutte le relazioni che nel mondo scolastico si intrecciano.
La scuola vive di relazioni e in ogni istante in essa si è chiamati ad affermare l’altro come amico o come nemico, a decidere se l’altro è un pericolo – e dunque a far vincere il sospetto e a mettersi sulla difensiva –, o se l’altro è un’opportunità per sé, per la propria crescita e porsi in una prospettiva dialogica volta a far emergere il vero, il giusto e il bene.
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Ringrazio i docenti con cui ho condiviso la lettura e la riflessione su Il tagliapietre, in particolare la professoressa Daniela Muzio e il professor Giorgio Salvato.
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