Un violino oltre il male del mondo

- Giuseppe Frangi

Nel suo ultimo romanzo, Cormac McCarthy dà corpo letterario al “mistero” del violino. Un bene “ultimo”, gratuito, che sopravvive a qualsiasi bruttura del mondo

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Photograph of Cormac McCarthy by David Styles (1973, da Wikipedia)

Chi è il primo uomo ad aver dato al violino quella forma che non è mai mutata nei secoli? Chi per primo ha messo a punto quello strumento capace di suoni meravigliosi, che ha messo in azione la creatività dei più grandi musicisti della storia? Se lo chiede Alicia Western, la protagonista di Stella Maris, l’ultimo romanzo scritto da Cormac McCarthy, da poco pubblicato in Italia. Alicia è una mente superiore, un genio della matematica che però ha abbandonato il campo dei suoi studi e che nel romanzo troviamo ricoverata, per volontà propria, in una clinica psichiatrica il cui nome dà il titolo al libro. Quello che siamo chiamati a leggere non è altro che la verbalizzazione dei suoi colloqui con lo psichiatra che l’ha presa in cura, il dottor Robert Cohen.

Ad un certo punto Alicia, che era stata anche una violinista, ma non sufficientemente brava per reggere alle proprie ambiziose aspettative, spiega di aver voluto indagare, da matematica, sul segreto che sta alla base delle vibrazioni e delle frequenze di quello strumento. Ma lei, come una sua collega del New Jersey, si erano arrese perché quelle vibrazioni e quelle frequenze “erano talmente complesse che resistevano a qualsiasi analisi esaustiva”.

Di conseguenza restava aperto il mistero di chi avesse messo a punto, un giorno, il violino. Alicia spiega al dottore che lo strumento più antico che si conosca è di uno dei grandi liutai cremonesi, ma ciò che più la stupisce è come quel prototipo fosse “semplicemente spuntato dal nulla in tutta la sua perfezione”.

A questo punto Cormac McCarthy mette in azione uno di quei suoi meccanismi letterari di tale suggestione, da farci ogni volta commuovere e affezionare ai suoi libri. Per bocca di Alicia inizia infatti ad immaginare quello che la storia non ci ha tramandato né documentato: com’è nato il primo violino. “Quanto al violino”, scrive, “a meno di voler ammettere che sia stato inventato da Dio, c’è una figura che resterà per sempre ignota”. Un figura ignota che però McCarthy si è avventurato a tratteggiare. Leggiamolo: “Un omino che si addentrò con suo figlio nelle stentate foreste della piccola era glaciale dell’Italia del quindicesimo secolo e segò e spaccò gli aceri e mise i pannelli ad asciugare per sette anni finché una mattina nella luce obliqua della sua bottega disse una breve preghiera di ringraziamento al suo creatore e poi – edotto di questa cosa perfetta – prese i suoi attrezzi e ne intraprese la fabbricazione. Dicendo e adesso all’opera”.

Sull’onda di questa meravigliosa suggestione affidataci dallo scrittore americano, potremmo chiederci quale imprevista certezza avesse convinto l’ignoto omino a buttarsi in un’impresa simile. Quale impeto lo avesse mosso. Quale segreto richiamo fosse risuonato nel suo cuore. Metteva tanta energia per inventare un qualcosa di non necessario, di non richiesto perché non immaginato da nessuno. Eppure, come scrive McCarthy, non era stato attraversato da un dubbio. “E adesso all’opera”, dice a se stesso.

Per venire all’oggi: è cosa ben fragile quel violino rispetto alla prepotenza delle armi che stanno seminando morte e distruzione in Palestina come in Ucraina, e non solo. Il suo suono è letteralmente schiacciato dallo strepitio delle armi e dalla violenza delle bombe. Eppure, nella sua esilità e nella sua gratuità, quel violino ci ribadisce con ostinazione – la stessa ostinazione con cui quell’ignoto omino l’aveva messo a punto e fabbricato – che c’è un bene irriducibile nel destino della storia, a cui non smettere di prestare ascolto.

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