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Home » Educazione » SCUOLA/ Woke e gender fluid, la cultura bocciata dagli USA che in Italia fa ancora danni

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SCUOLA/ Woke e gender fluid, la cultura bocciata dagli USA che in Italia fa ancora danni

Patrizia Ciava
Pubblicato 9 Aprile 2025
A scuola (Ansa)

A scuola (Ansa)

La crisi della scuola italiana è dovuta anche alla ricezione in ritardo di modelli culturali ed educativi altrove già in crisi. Occorre più libertà

L’epoca del cosiddetto New World Order – l’ordine mondiale neoliberale nato alla fine della Guerra fredda e fondato su globalizzazione, mercati aperti, egemonia americana e soft power culturale – sta ormai tramontando. I segnali di questo cambiamento sono ovunque: dalla guerra in Ucraina al riarmo europeo, dal ritorno delle barriere economiche fino alla rinazionalizzazione delle agende politiche. Molto più incerta la situazione nella scuola, almeno quella italiana.


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La guerra in Ucraina non rappresenta un episodio isolato, ma è direttamente legata al collasso di un sistema che per trent’anni ha imposto una visione economica e geopolitica unipolare. I vecchi equilibri internazionali si sono infranti: la Cina sfida apertamente l’egemonia statunitense, il Sud globale rivendica maggiore autonomia, mentre anche in Occidente cresce il rigetto nei confronti del progressismo liberal-globalista, che ne rappresentava l’ideologia dominante.


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Negli Stati Uniti, la cosiddetta cultura woke è diventata il simbolo di questa fase storica, percepita da milioni di cittadini come oppressiva e ipocrita. Nata inizialmente come linguaggio inclusivo e di giustizia sociale, questa ideologia si è progressivamente trasformata in uno strumento di censura e imposizione, specialmente verso chi manifestava dissenso. L’agenda LGBTQ+, in particolare, è stata veicolata nelle scuole con toni spesso dogmatici e direttamente rivolti ai bambini, suscitando preoccupazioni diffuse tra genitori e insegnanti.

Le scuole primarie statunitensi sono diventate scenario di iniziative sempre più spinte, come letture di testi contenenti descrizioni esplicite di rapporti omosessuali, spettacoli con drag queen e laboratori sull’identità di genere. Spesso i bambini sono stati incoraggiati alla cosiddetta “transizione sociale” già in età prepuberale, cambiando nome, pronomi e abbigliamento per allinearsi a una percezione soggettiva di identità.


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Ciò ha provocato un fenomeno crescente di emulazione sociale fra adolescenti, con identificazioni transgender o non binarie sempre più precoci. Numerosi genitori hanno segnalato che i figli sono stati indotti a mettere in discussione la propria identità sessuale solo per aver mostrato preferenze non conformi agli stereotipi di genere.

Anche il mondo dello spettacolo ha contribuito a diffondere questi modelli, con molte celebrità di Hollywood che dichiarano pubblicamente di avere figli gender fluid o transgender, spesso con il fine di apparire aperti e progressisti.

Secondo alcuni esperti, il rischio è di cristallizzare forme temporanee di disagio, rinforzando identificazioni transitorie influenzate da mode culturali o bisogni relazionali piuttosto che da un reale disagio psicologico.

Negli Usa le proteste dei genitori nelle audizioni pubbliche presso i consigli scolastici non manifestano ostilità verso le persone LGBTQ+, ma una richiesta di rispetto per la libertà educativa delle famiglie e per il diritto dei bambini a ricevere un’educazione equilibrata, libera da imposizioni ideologiche.

Tuttavia, il politicamente corretto, esasperato all’estremo, ha eroso lo spazio per il dissenso e il pensiero critico, portando molti americani a sentirsi giudicati o puniti per opinioni non allineate.

La rielezione di Trump, sostenuta da un ampio consenso, rappresenta una svolta significativa. Durante la campagna elettorale, Trump aveva promesso di contrastare la diffusione di contenuti woke nelle scuole e di bloccare le transizioni in età adolescenziale. Il suo successo elettorale, favorito anche dal voto di molti genitori, indica chiaramente la stanchezza diffusa verso certe derive ideologiche e il desiderio di un ritorno a forme educative più tradizionali.

Alcuni Stati americani, come Florida e Texas, hanno già adottato leggi che vietano di trattare temi legati all’identità di genere e all’orientamento sessuale con bambini sotto una certa età, riaffermando il controllo educativo dei genitori e la protezione dei minori da contenuti ritenuti inappropriati o unilaterali.

Se negli Stati Uniti l’ondata woke ha ormai raggiunto e superato il suo apice, provocando una reazione politica storica, in Europa la situazione appare paradossale: mentre oltreoceano si fa marcia indietro, molte scuole europee iniziano ora ad abbracciare quel paradigma ideologico rigettato con il voto americano a Trump.

In Italia, in particolare, le pratiche educative ispirate alla cultura woke sono percepite come novità “progressiste”, introdotte nelle scuole con entusiasmo, come se fossero finalmente allineate ai modelli d’oltreoceano.

Così, mentre negli Stati Uniti si combatte contro i programmi gender-oriented, nelle scuole italiane vengono proposti laboratori sull’identità fluida, linguaggio neutro e programmi di educazione sessuale fortemente ideologizzati, suscitando disagio nelle famiglie spesso escluse o considerate retrograde.

Recentemente, ha sollevato vivaci polemiche l’adozione nelle scuole elementari lombarde del libro La più bella del mondo di Walter Veltroni, destinato a insegnare ai bambini gli articoli della Costituzione italiana. Secondo alcuni osservatori, il libro propone una rappresentazione della realtà in cui le famiglie omogenitoriali e le identità di genere fluide diventano modelli esclusivi, mentre la famiglia tradizionale – composta da madre, padre e figli – risulta del tutto marginalizzata.

Non è tanto la presenza di personaggi LGBTQ+ a sollevare obiezioni, quanto il fatto che queste rappresentazioni vengano offerte a bambini molto piccoli come paradigmi unici, in una fase dello sviluppo in cui mancano ancora gli strumenti per riflettere e confrontare in modo critico. L’obiettivo sembra essere quello di orientare il pensiero dei bambini prima che siano in grado di formarsi un’opinione autonoma.

Secondo i sostenitori, invece, si tratta di un’iniziativa attuale e doverosa per educare all’inclusione, al rispetto e alla parità.

In altre scuole si stanno sperimentando usi alternativi della lingua italiana, con comunicazioni ufficiali rivolte agli “student*” o ai “bambinə”, nel tentativo di neutralizzare il genere. In alcuni casi si è arrivati perfino a modificare le graduatorie accademiche con simboli non previsti dalla grammatica italiana, o a introdurre regolamenti interni che impongono il femminile anche per ruoli istituzionali maschili, come segno di “sovra-inclusività”.

Parallelamente, l’adozione a scuola di criteri di assunzione e formazione basati su parametri DEI (diversity, equity, inclusion) ha portato, in diversi casi, a un abbassamento degli standard formativi e professionali, sacrificando le competenze in nome della diversità. In nome dell’inclusione a tutti i costi, non si premiano le eccellenze, si annacquano i criteri di merito e si scoraggia qualsiasi forma di differenziazione.

In un’Europa senza una propria direzione pedagogica autonoma, e in un’Italia incapace di distinguere progresso da imitazione, l’adozione della cultura woke nella scuola arriva fuori tempo massimo, proprio quando gli Stati Uniti ne stanno facendo un bilancio critico.

La sfida è elaborare una visione educativa autenticamente europea, radicata nella nostra tradizione democratica e umanistica, evitando di importare modelli culturali divisivi e problematici. Altrimenti, il rischio è di replicare acriticamente modelli già falliti altrove, senza nemmeno averli compresi fino in fondo.

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Tags: Donald Trump

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