Simonetta Cesaroni, la vita ordinaria di una ragazza romana negli anni '90: lavoro, famiglia e fidanzato prima del tragico destino
Simonetta Cesaroni abitava nel popolare quartiere Don Bosco, in via Filippo Serafini 6, in quel quadrante di Roma che ha ancora il sapore degli anni ’70, con le sue case basse e i cortili dove i bambini giocavano fino a tardi; suo padre Claudio, tranviere dell’A.Co.Tra.L., era il simbolo del classico lavoratore pubblico romano, la madre Anna, casalinga, il cuore del focolare domestico.
La sorella maggioredi Simonetta Cesaroni, Paola – di sei anni più grande – rappresentava quel rapporto fraterno indissolubile, che sarebbe poi diventato fondamentale nei giorni più bui, in seguito al dramma.
Simonetta Cesaroni era cresciuta in questo ambiente semplice ma dignitoso, dove il valore del lavoro si insegnava a tavola, tra un piatto di pasta e l’altro; aveva trovato il suo primo impiego da segretaria contabile nel gennaio 1990 presso la Reli Sas, uno studio commerciale in zona Casilina amministrato da Ermanno Bizzocchi e Salvatore Volponi.
Non era propriamente un lavoro prestigioso, ma per una ragazza diplomata di vent’anni rappresentava un’ottima opportunità: la sua settimana lavorativa era organizzata scrupolosamente: lunedì, mercoledì e venerdì nello studio principale, martedì e giovedì pomeriggio presso gli uffici dell’AIAG in via Poma, dove Simonetta Cesaroni seguiva la contabilità degli alberghi della gioventù, un impegno serio, portato avanti con dedizione e quella discrezione che era tipica del suo carattere timido e introverso.
Simonetta Cesaroni e via Poma: la normalità interrotta in un pomeriggio
La vita privata di Simonetta Cesaroni ruotava attorno ad affetti semplici ma profondi: il fidanzato Raniero Busco, conosciuto nell’estate del 1988, un ragazzo del quartiere di Morena, di quattro anni più grande – quel tipo di relazione che, nelle periferie romane, spesso si tramutava in matrimonio dopo qualche anno di fidanzamento – non erano ricchi, ma neanche poveri: appartenevano a quel ceto operaio-impiegatizio che, negli anni ’80, costituiva la spina dorsale della società romana.
La sua era un’esistenza fatta di piccole ma importanti abitudini: il lavoro, la famiglia, le uscite con il fidanzato, forse un cinema ogni tanto. Quello che colpisce, ripercorrendo la sua breve vita, è quanto Simonetta fosse l’antitesi della ragazza “problematica”: non frequentava ambienti controversi, non aveva amicizie strane o poco raccomandabili, non mostrava quell’inquietudine tipica di molti giovani della sua età.
Era una ragazza di altri tempi, cresciuta troppo in fretta forse, con un forte senso di responsabilità che oggi appare raro e anomalo; l’epilogo drammatico sembra ancora più assurdo se contestualizzato nella normalità con cui conduceva la sua vita: non c’è nulla, nella sua biografia, che potesse far presagire un destino così straziante e crudele.
Proprio questa normalità, questa ordinarietà, rende la storia di Simonetta Cesaroni ancora più desolante, come dimostrazione che il male può colpire chiunque, anche chi non ha mai cercato il pericolo, e così la Simonetta che affiora nella mente di chi l’ha conosciuta è una figura luminosa nella sua semplicità, il simbolo di un’Italia che non c’è più, fatta di valori semplici e affetti puri e genuini.