Per gli italiani la pena carceraria è diventata sinonimo di protezione e sicurezza, ma non è questa la sua funzione originaria
In questi giorni si sta parlando molto di giustizia, a seguito del via libera del Senato al ddl costituzionale Meloni-Nordio che riforma la magistratura, sancendo la separazione delle carriere tra giudici e Pm. Tuttavia, in settimana è stato approvato dal Consiglio dei ministri un importante decreto in materia di carceri. Diventa allora molto interessante sapere cosa pensano gli italiani della funzione della pena, dell’indulto e di come la politica dovrebbe affrontare il tema. Ne abbiamo parlato che Arnaldo Ferrari Nasi, sociologo e analisti, che con la sua AnalisiPolitica ha da poco realizzato un sondaggio su questi argomenti, con interessanti paragoni storici.
Dalle risposte emerge che l’idea punitiva della pena rimane prevalente tra gli italiani, oggi come dieci anni fa. C’è davvero così tanta immobilità nella nostra società?
Effettivamente, i dati mostrano una sorprendente stabilità. Il 43% degli italiani indica la punizione come la funzione principale della pena, una percentuale pressoché uguale a dieci anni fa. Nonostante i cambiamenti sociali, le crisi e il dibattito pubblico, l’idea che chi sbaglia debba pagare continua a essere centrale. Questo dice molto sulla paura diffusa e sulla richiesta di certezza, che tuttora prevalgono su altre logiche, come la rieducazione.
Colpisce che la quota di chi punta sulla rieducazione sia solo del 31%. Non le sembra in contrasto con quanto prevede la Costituzione?
Sì, lo è. La nostra Costituzione parla chiaramente di rieducazione come scopo della pena. Eppure, solo poco più di un italiano su quattro la indica come priorità. Si tratta di una distanza storica, quasi “culturale”, tra le norme scritte e la percezione collettiva. Anche negli ultimi anni, con tanta attenzione mediatica sul tema, le percentuali non si sono mosse più di tanto.
Quali sono, tra i dati raccolti, quelli che ritiene più sorprendenti?
Il fatto che l’idea della punizione severa sia ampiamente condivisa anche tra le donne risulta essere controintuitivo. Di solito si immagina che la richiesta di rigorosità provenga maggiormente dal mondo maschile, ma non è così: molte donne, anzi, si dimostrano ancora più intransigenti. Un altro dato sorprendente riguarda l’età: i giovani sono più aperti alla prevenzione e alla riabilitazione, ma la fascia 40-60 anni è quella che spinge maggiormente per pene più dure, mentre tra gli anziani cresce la richiesta che la pena venga sempre scontata per intero.
A livello politico, invece, le differenze sono nette?
Decisamente sì, anche se con alcune sorprese. La Lega guida il fronte delle pene severe, mentre Forza Italia e Fratelli d’Italia sono più orientate a rafforzare la certezza della pena e il funzionamento del sistema. Nel centrosinistra la riabilitazione è più presente, ma, e qui sta il dato inatteso, il 45% degli elettori del Movimento 5 Stelle chiede punizione, una quota superiore anche a Fratelli d’Italia.
Un altro aspetto interessante riguarda le soluzioni per risolvere il problema delle carceri sovraffollate. Cosa ci dicono gli italiani?
Anche qui le percentuali parlano chiaro. Negli ultimi vent’anni, la risposta plebiscitaria è sempre stata: “Costruire nuove strutture carcerarie” piuttosto che ricorrere ad amnistie o indulti. Nel 2014 addirittura il 76% si dichiarava favorevole a nuove strutture, nonostante il dibattito sull’indulto fosse accesissimo. Esiste una convinzione radicata che chi sbaglia debba scontare interamente la pena, senza scappatoie.
Tornando alla funzione della pena: il tema della protezione della società è in lieve crescita. Che significato ha?
La fiducia nelle istituzioni vacilla mentre si diffondono sentimenti di vulnerabilità. Cresce la richiesta di garanzie, più che di punizioni. Sfiducia e timori spiegano l’aumento di chi crede nella pena come protezione. Tuttavia, essa confonde rigore con sicurezza, dimenticando che altrove severità estreme coesistono con alti tassi di criminalità. L’equilibrio è la via maestra, bilanciando fermezza e recupero in un sistema equo.
Ma davvero rigidità significa meno crimini?
No, ci sono evidenze che contraddicono questa teoria. Gli Stati Uniti, patria di pene esemplari, registrano reati in numeri spropositati rispetto a noi. Più che le “minacce”, conta la probabilità di venir puniti. Ciò che serve è un approccio equilibrato, che unisca durezza a prevenzione e reinserimento sociale.
Cosa dovrebbe trarre la politica da questi dati?
È ora di riconoscere che alcune convinzioni sono dure a morire. Cambiare le leggi non basta, bisogna lavorare sul sentire comune. Servono onestà e lungimiranza nel parlare di errori passati e futuro migliore, quando sarebbe più semplice invocare solo rigore. È così che si costruisce vera sicurezza, non con più sbarre, ma con una società più equa.
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