Alcuni appunti sulla questione salariale italiana e lo sciopero generale del 12 dicembre proclamato dalla Cgil

In un’economia occidentale di mercato, com’è anche l’Italia, salari e stipendi vengono determinati dalla contrattazione fra le imprese e i lavoratori, fra le loro organizzazioni sindacali: non dal Governo nelle manovre finanziarie. La crisi delle retribuzioni in Italia sarà (correttamente) al centro di Relind 2025, un forum organizzato per domani a Milano da Assolombarda, alla quale è invitato anche il leader della Cgil, Maurizio Landini. Il quale, dal canto suo, venerdì ha indetto uno sciopero generale contro il Governo Meloni, accusato di aver varato un budget disattento alla remunerazione del lavoro.



Sul mercato del lavoro lo Stato è controparte diretta dei dipendenti della Pubblica amministrazione. E giusto nei giorni scorsi il Governo Meloni ha definito al tavolo sindacale di categoria adeguamenti retributivi per gli insegnanti: ultimi miglioramenti di una serie che ha compreso, fra l’altro, i dipendenti delle forze dell’ordine.



Un Governo può intervenire sul mercato del lavoro fissando un salario minimo di legge. L’Esecutivo tedesco (coalizione fra popolari e socialdemocratici) ha appena varato un incremento del minimo orario da 12,8 euro a 14,6 nei prossimi due anni, concordandolo con le parti sociali. Dodici anni di presidenza dem negli Usa (Obama e Biden) hanno invece sempre fallito nel mantenere le promesse elettorali sull’aumento dei minimi salariali. È stata solo una dura e classica campagna di scioperi dell’Uaw contro i big dell’auto a segnare una svolta su vasta scala nazionale nei “compensation package“, negoziati rigorosamente sul mercato.



La piattaforma del neo-sindaco di New York, Zohran Mamdani, punta sul miglioramento del potere d’acquisto dei cittadini a basso reddito anzitutto attraverso il blocco degli affitti (quindi contro il rigonfiamento della rendita immobiliare) e il depotenziamento delle bolle inflazionistiche nella grande distribuzione dei beni di consumo. L’incremento atteso nella tassazione municipale sugli alti redditi/patrimoni si profila come strumentale ai nuovi obiettivi di politica economica locale, non come un vessillo ideologico prioritario in sé e indeterminato in dimensione e finalità.

E nel suo team Mamdani (che su posizioni di sinistra “socialista” è stato anzitutto capace di vincere le elezioni) ha subito chiamato Lisa Kahn, “zarina” dell’Antitrust federale, che sotto la presidenza Biden aveva ingaggiato battaglia contro Amazon. La chief della Federal Trade Commission aveva messo nel mirino Jeff Bezos per pratiche anticoncorrenziali, ma sullo sfondo anche per lo sfruttamento dei lavoratori e le pretese eccessive di incentivi fiscali per nuovi investimenti, come quello per il secondo hub statunitense, proprio a New York.

Mamdani – ora al governo – non vuole fare lui l’imprenditore, salvo che nei trasporti pubblici per abbatterne le tariffe: pretende invece che i “padroni” (di casa o d’impresa) facciano la loro parte in modo equo sul mercato verso i loro inquilini, dipendenti e clienti finali.

Zhoran Mamdani (Ansa)

La decisione tedesca sul salario minimo è stata messa nero su bianco fra le parti sociali in Cancelleria, sotto l’occhio delle forze parlamentari di maggioranza e opposizione. In Italia un passaggio confrontabile è maturato trent’anni fa, quando il Governo Ciampi aprì un tavolo di concertazione al quale le parti sociali (anche la Cgil) aderirono costruttivamente.

Ne risultò una “politica dei redditi” votata all’ingresso dell’Italia nell’euro, cioè alla presenza stabile dell’Italia nel nuovo contesto di parametri-vincolo fissati dai Trattati di Maastricht. La politica del lavoro e la politica industriale di un Paese-membro dell’Ue sono dal 1992 parte integrante di una più ampia politica economico-finanziaria posta sotto la diretta vigilanza Ue.

Nell’economia Ue un Paese membro non può decidere un piano keynesiano di sviluppo infrastrutturale al di fuori dei parametri Ue su debito e deficit. L’Italia è da sempre e ampiamente fuori linea sul debito. La Germania – in recessione, ma con le finanze pubbliche in perfetto ordine – ha annunciato un piano pubblico decennale da 1.000 miliardi finalizzato al riarmo, con il tendenziale coinvolgimento della sua centrale industria dell’auto. Berlino sta ragionando anche sul ridimensionamento della transizione green e sul rilancio del nucleare.

La Francia, invece, è nel caos politico-finanziario: il deficit è il doppio del parametro Ue, ma il presidente Emmanuel Macron, pur di resistere in carica, sta concedendo alle sinistre il ritiro della riforma pensionistica imposta dall’Ue all’Italia 14 anni fa. Socialisti e sinistra antagonisti premono anche per una tassazione straordinaria – che colpirebbe anzitutto le grandi holding familiari -, ma la maggioranza dell’Assemblea nazionale (macronisti compresi) è contraria: viene giudicata una misura puramente elettoralistica in vista delle presidenziali 2027 e pericolosamente depressiva – e a rischio fuga di capitali – per un’Azienda-Paese già in difficoltà.

In un’economia di mercato, il Governo può promuovere un’evoluzione regolatoria del mercato del lavoro per favorirne l’efficienza ai fini di occupazione e retribuzioni. Ormai una decina d’anni fa, in Italia il Governo Renzi ha varato il Jobs Act, preso talora a modello all’estero ma sempre osteggiato dai sindacati nazionali (in particolar modo dalla Cgil, che ancora pochi mesi fa ha promosso un referendum per la sua definitiva abolizione).

Il Jobs Act è stato in ogni caso subito demolito dal Governo Conte 1, guidato da M5s, che vi ha sostituito il Reddito di cittadinanza. Quest’ultimo – una misura puramente assistenziale da 20 miliardi in 5 anni, completamente priva di effetti su occupazione e redditi dei lavoratori – è stato il primo pilastro di un keynesismo spurio concepito da M5s, vincitore delle elezioni del 2018.

Il secondo pilastro di un (preteso) intervento pubblico a favore dei redditi da parte della sinistra al governo dopo il ribaltone 2019 è stato il Superbonus deciso dal governo Conte 2 (M5S-Pd). Il piano – giustificato dalla recessione Covid e “verniciato di verde” – ha generato nel 2020-22 uno sbilancio di 120 miliardi nelle finanze pubbliche, ipotecando i conti statali per molti anni avvenire (oltre a essere fonte, come il Rdc, di abusi talora a sfondo criminale).

La denuncia odierna di Landini certifica comunque oggi il fallimento sul fronte salariale di quella politica economica, alla cui regia c’erano l’attuale sindaco dem di Roma Roberto Gualtieri al Mef, Nunzia Catalfo (M5s) al Welfare, Stefano Patuanelli (M5s) al Mise, la dem Paola De Micheli al Minint e Paola Pisano (M5s) alla digitalizzazione.

La crisi strutturale dei redditi da lavoro in Italia è fatta risalire dagli economisti – con consenso sempre più largo – alla stagnazione della produttività del lavoro. E la responsabilità prima è di imprese e lavoratori: soprattutto delle prime nel garantire investimenti innovativi, finalizzati al sostegno della competitività dell’Azienda-Italia sui diversi mercati.

I Governi italiani susseguitisi nell’ultimo decennio hanno – in modi e misure diversi – tutti sostenuto l’originaria matrice di agevolazioni “Industria 4.0” per la digitalizzazione della produzione manifatturiera. L’Esecutivo Meloni, alla sua terza manovra, ha lasciato cadere l’indirizzo strategico ribattezzato “Transizione 5.0”: sta già rispondendo in tempo reale della sua scelta alle critiche delle rappresentanze industriali; vedremo se protesteranno anche i sindacati.
La stessa strategia era stata posta – assieme alla transizione energetica – fra le grandi direttrici del Pnrr, tuttora operativo sotto la vigilanza del governo e del Parlamento. E resta compito primo di maggioranza e opposizione parlamentare valutare il presente e futuro – ma inevitabilmente anche il passato – della politica economico-finanziaria, più o meno vicina. Solo il crollo del Ponte Morandi ha accennato ad innescare, vent’anni dopo, una riflessione sulle grandi privatizzazioni in Italia impostate da Carlo Azeglio Ciampi e Romano Prodi, con la regia tecnica di Mario Draghi su pressione Ue.

E cosa pensano, per l’appunto, il Pd e il cripto-capo della sinistra antagonista Landini degli 8 miliardi spesi dalla Cdp per ristatalizzare le Autostrade su decisione del Conte 2? E della cifra analoga spesa dall’Esecutivo Renzi per salvare Mps? E del destino dell’ex Telecom Italia, dopo la “madre di tutte le Opa” appoggiata dal Governo D’Alema?

E della vicenda Ilva, non escluso il ruolo della magistratura militante? E del futuro della transizione verde nel settore auto, co-protagonista Stellantis? Del nucleare pulito da far sviluppare all’Enel? Del “piano Mattei” affidato all’Eni? Del futuro dei rapporti commerciali e finanziari con la Cina, cari a Romano Prodi e Massimo D’Alema? Da ultimo: per Landini, la sua Cgil e le sue piazze il Rapporto Draghi è o no una road-map per l’Azienda-Italia in Europa?

Sia il leader della Cgil, sia il “Mélenchon italiano” para-candidato premier nel 2027, avrebbero il dovere di rispondere a queste domande, non limitandosi a bloccare treni e metropolitane il venerdì per poi invocare la patrimoniale “contro i ricchi” il sabato spaccando vetrine o minacciando i luoghi israeliti.

Non da ultimo: una forte concausa contingente della crisi del potere d’acquisto è stata l’inflazione provocata prima dalla pandemia e poi dalla crisi geopolitica. La guerra di Gaza è stata il pretesto scatenante delle piazze landiniane in Italia: ma in gioco c’era ben poco di economico, quasi nulla di pertinente alla crisi dei salari italiani.

Il terreno geopolitico cruciale per le bollette energetiche delle famiglie italiane piuttosto che per l’orientamento al riarmo degli investimenti pubblici italiani è il teatro russo-ucraino. Landini è d’accordo con l’assalto di un mese fa alla sede torinese di Leonardo? Vuole che il Governo Meloni interrompa ogni forma di aiuto a Kiev? Vuole la pace di Putin e una ricostruzione dalla quale l’Italia sia esclusa? Vedremo se il 12 dicembre giungeranno risposte.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI