Lo stato di salute – quello reale – di un’economia lo si evince da indicatori decisamente poco ortodossi. Certo, ci sono le tracciature ufficiali. Dal tasso di inflazione all’occupazione al Pil. Ma si sa, ultimamente gli esempi di flip-flop dal forte sapore manipolatorio si sono sprecati. Qui, invece, c’è qualcosa di decisamente poco interpretabile. Da ieri negli Usa è scoppiata una guerra.
Nulla che abbia a che fare con Donald Trump e il secondo capitolo dell’assalto a Capitol Hill. La guerra dei fast food. Sia Burger King che McDonald’s, infatti, propongono nelle loro catene di ristoranti il cosiddetto meal deal a 5 dollari. Panino, patatine, bibita e anche un dolcetto. Tutto a 5 dollari. Chiaramente, menù fisso. Porzioni non certo da boscaiolo canadese a fine turno. Ma una chiara risposta a quel sondaggio (di cui vi ho parlato nelle scorse settimane) in base al quale per il 70% degli americani intervistati, andare a mangiare al fast food è divenuto un lusso che ci si può permettere un paio di volte al mese. D’altronde, l’aumento del costo dei panini più famosi è stato esorbitante. Ma ancora di più il crollo del potere d’acquisto dei salari statunitensi, a loro volta stagnanti ormai da trimestri. Alla faccia del soft landing. E, soprattutto, alla faccia di una Wall Street che continua a sfondare un massimo al giorno. Le due città di Charles Dickens.
Ma a far propendere il sottoscritto per una maggior fiducia nella narrazione della Big Mac veritas, ci pensa questo grafico, il quale ci mostra come le menzioni di formule che sono il prodromo a tagli occupazionali per razionalizzare costi e migliorare la produttività siano letteralmente esplose nei report delle aziende.
Tradotto, in caso le serie storiche non mentano, siamo alla vigilia di uno tsunami di licenziamenti. Sarà per questo che McDonald’s ha annunciato il suo meal deal a metà maggio, subito dopo la pubblicazione del sondaggio shock e che, addirittura, Burger King abbia scelto la politica del marketing blitz, evitando annunci se non a 48 ore dall’esordio della nuova politica di prezzi del rivale, anticipandolo? Davvero la verità sta nella generosità di una porzione di patatine fritte o nella quantità di strisce di bacon contenute in un hamburger?
Temo di sì. E temo anche dell’altro, quantomeno stando a quest’altro grafico: certamente trattasi di prese di profitto, stando all’andamento stellare del titolo e l’ulteriore accelerazione seguita allo split azionario dello stesso. Ma il numero di insiders di Nvidia, compresi i massimi vertici e il Ceo, Jensen Huang, che ha venduto titoli della propria azienda nel primo semestre di quest’anno è da record. Circa 700 milioni di dollari di controvalore.
Davvero solo prese di beneficio, magari per cambiare la macchina o estinguere in un solo colpo il mutuo immobiliare o quello scolastico dei figli? Oppure gli insiders sanno qualcosa che noi comuni mortali ancora ignoriamo? Tipo che l’ultima trimestrale era infarcita di crediti da cloud che, in realtà, mai diverranno entrate reali e contabilizzabili, esattamente come certe vendite a terzi, ma funzionano ottimamente da collaterale in modalità pagherò?
Vuoi dire che a Nvidia sanno che il modello di business ricalca pericolosamente quello di Pfizer? Ovvero, pensare di aver trovato la pietra filosofale da multiplo e che sia sufficiente ogni anno presentare un suo upgrade, più o meno efficace, più o meno in grado di sostenere e giustificare certe valutazioni? Perché come nel domino, a volte la costruzione più grande e imponente si dimostra fragilissima, una volta che un semplice tocco di falange fa cadere la prima tessera. E in giro ce ne sono davvero tanti di fat fingers pronti a tramutare Wall Street in un potenziale tappeto del Subbuteo.
Guardate quest’ultimo grafico, il quale ci mostra lo strepitoso risultato ottenuto dalla Bank of Japan nella sua lotta contro il deprezzamento dello yen.
PUBBLICA QUI YEN_WASTED)
Nonostante l’intervento da oltre 50 miliardi di dollari a sostegno della valuta, solamente meno di un mese fa, ecco che oggi siamo tornati a quota 159 sul dollaro. E in molti cominciano a prezzare due domande. Primo, a quale asticella scatterà il prossimo intervento? Magari 165? O magari addirittura 170, così da provare a vendere al mercato un po’ di sangue freddo che in realtà non scorre nelle vene? Secondo, una volta deciso il livello, quale sarà il controvalore da mettere in campo per evitare che dopo meno di un mese, il mercato dimostri come quella mossa disperata si sia rivelata l’ennesimo fiasco? Perché quest’ultima domanda porta con sé il segreto del vaso di Pandora: vuoi vedere che il debito giapponese non è sostenibile con tassi di interessi positivi e, di fatto, la Boj sarà costretta a stampare e comprare per l’eternità, salvo far esplodere il Paese? Non a caso, la banca cooperativa di pescatori e agricoltori ha annunciato proprio l’altro giornola sua decisione di scaricare debito estero per 63 miliardi di dollari, al fine di tamponare le perdite non contabilizzate su scommesse legate ai tassi di interesse andate nella direzione sbagliata. Prima erano sufficienti solo 7 miliardi di dollari, ora serve scaricare un terzo dell’intero portfolio di bonds. Proprio ora. Mentre negli Usa assistiamo alla singolar tenzone fra McDonald’s e Burger King a colpi di hamburger scontati e al quartier generale di Nvidia ci si occupa di scaricare titoli sui massimi storici, tanto per rimpinguare un po’ la liquidità di casa.
Quando certe dinamiche occorrono tutte insieme, solitamente preoccuparsi è buona abitudine. Quando poi accade alla vigilia dei bassi volumi di mercato dell’estate, è obbligo. Se accadde a pochi mesi dalle presidenziali Usa, siamo in odore di sentenza.
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