Vi siete chiesti perché Donald Trump nel suo furore iconoclasta di firme, annunci e minacce abbia finora riservato un trattamento a dir poco di riguardo verso quello che, formalmente, dovrebbe essere invece il nemico pubblico numero uno del suo programma di Make America Great Again? La Cina, di fatto, è stata solo sfiorata dalla questione dazi. Un 10% ventilato rispetto al 50% minacciato in campagna elettorale. E, soprattutto, motivato non da ragioni economiche, bensì dal fatto che Pechino inonderebbe gli Usa di Fentanyl via Messico.
Addirittura, dopo aver strapazzato ben ben l’Europa e fattole capire cosa la attende, intervenendo a Davos, il Presidente Usa si è lasciato andare a quello che molti hanno interpretato come un wishful thinking da ramoscello d’ulivo: Potrei non aver nemmeno bisogno di applicare dazi alla Cina. Altra stranezza: come mai nessuno fa notare questa debolezza d’approccio verso Pechino, a fronte di proclami di annessioni in mezzo mondo e minacce di sanzioni senza precedenti verso la Russia, in caso non accettasse di sedere al tavolo con Kiev?
La mattina seguente alla trionfale, chiassosa e strombazzata cerimonia d’insediamento, i cavi subacquei che garantiscono le comunicazioni fra Taiwan e le Matsu Islands sono stati disconnessi. Danneggiati. Leggi, tranciati. Attualmente, tutto dipende dai satelliti. E Taipei ha già attivato la comunicazione di back up. Fin qui, la cronaca. Che non avete letto da nessuna parte. Perché questa non è un’esercitazione che si può prendere e tramutare in materiale da lotta ideologica. Pechino ha chiaramente inviato un’ambasciata di quelle poco inclini all’interpretazione al nemico carissimo. E lo ha fatto a tempo di record rispetto alla sua prima, roboante prova di forza.
Ora guardate la cartina. Le Matsu Islands sono un Arcipelago di 36 isolette a una ventina di chilometri dalla costa cinese. Sede di basi navali. Militari. Taiwan ha 18.000 soldati di stanza in quella che è la vera e propria prima linea di difesa offshore in caso di invasione cinese.
Già lo scorso maggio, Pechino aveva reso note le proprie intenzioni. A Fuzhou, capitale della provincia di Fujian, dal 16 al 19 il Taiwan Affairs Office (TAO) del Governo cinese in cooperazione che le autorità locali organizzò la 26ma Cross-Straits Fair for Economy and Trade. E in quell’occasione presentò il piano in 10 punti per l’integrazione economica dell’Arcipelago con la Cina continentale. Prove generali di un primo passo di riconquista di territorio taiwanese con le buone. Ma già dal 2022, l’Esercito e la Marina cinese operavano nell’area con quelle che erano vere e proprie esercitazioni per rendere inoffensiva la prima linea di difesa dall’invasione. Insomma, con le cattive. Addirittura uno di questi war games avvenne in contemporanea con la visita a Taipei di Nancy Pelosi. Il 21 gennaio, poi, questo strano incidente. Dopo i cavi tranciati nel Baltico. Ma, soprattutto, soltanto 24 ore dopo la firma del neo-insediato Donald Trump dell’ordine esecutivo che per 90 giorni blocca ogni tipo di aiuto e finanziamento estero degli Stati Uniti. E quanto Taiwan dipenda dai dollari di Washington è noto almeno quanto le mire di quest’ultima sui microchip di TSMC nelle fabbriche in Arizona. E soprattutto, solo qualche ora dopo l’annuncio di tariffe del 10% sui beni cinesi a partire dal 1 febbraio. Ennesima esercitazione, ennesima provocazione?
Lo stesso giorno, l’indice VIX della Borsa di Hong Kong ha segnato -10%. Ovvero, un tracollo della paura. A fronte di un atto palesemente prodromico a un’invasione tout court, Pechino e le sue equities che da inizio anno segnano profondo rosso, hanno tirato un sospiro di sollievo. Quel 10% di dazio statunitense sui beni del Dragone non fa paura. E, probabilmente, nemmeno l’ipotesi che dietro quello che appare uno sabotaggio doloso travestito da sfortunato incidente possa esserci qualcosa di più drammatico, sembra far paura alla Borsa del Dragone. Anzi. Perché tutto può fare Donald Trump, tranne che una versione aggiornata del Vietnam per Taiwan. O, peggio, mostrare al mondo come il Re dell’interventismo Usa che rinomina Golfi e minaccia conquiste da Risiko di territori più o meno lontani e sovrani, si fermi di fronte a Pechino. E si mostri nudo.
Attenzione al game-changer che non ti aspetti. Nessuno ne ha parlato. Ma il messaggio preventivo e di deterrenza inviato il 21 gennaio da Pechino alla nuova Amministrazione statunitense è di quelli che non si possono ignorare. Salvo che non si sia la Commissione europea. In quel caso, l’inconsapevolezza è stato mentale che gioca di sponda con la comoda logica dell’utile idiota, prima ancora che dissimulata e dissimulante postura politica. Finché non capiremo che Bruxelles è solo una costola eterodiretta di Washington, difficilmente potremo evitare conseguenze. Dalle più serie e di lungo termine alle più quotidiane e profane come le bollette astronomiche di luce e gas di questo periodo.
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