Nel Sudan devastato da fame, malattie e bombe, i russi si accordano con Al Burhan per una base sur Rosso e la ex Wagner lascia spazio ai colombiani
Il disastro umanitario è mille volte peggiore di quello di Gaza: alla guerra civile, infatti, in Sudan si uniscono la carestia e una devastante epidemia di colera. Ci sarebbero 2 milioni di sfollati interni e almeno altrettanti fuggiti fuori confine.
Ad aggravare la situazione, il conflitto tra le forze governative di Al Burhan e le RSF di Dagalo non accenna a diminuire di intensità. E la guerra per le risorse minerarie e naturali del Paese va avanti.
Intanto, però, la ex Wagner non appoggia più i russi, perché Mosca si è accordata con Al Burhan per avere una base sul Mar Rosso. Al posto dei mercenari russi, racconta Marco Di Liddo, direttore del CeSI, Centro Studi Internazionali, grazie ai soldi degli Emirati Arabi Uniti, ora ci sono i colombiani.
Il risultato è lo stesso: un Paese distrutto, al centro di dispute nelle quali hanno un ruolo anche Turchia e Arabia Saudita. I combattimenti hanno creato milioni di sfollati interni e qualcuno si rifugia nelle nazioni confinanti. Una massa di persone dalla quale, a lungo andare, potrebbero uscire altri migranti destinati all’Europa.
I numeri della guerra in Sudan continuano a essere spaventosi: l’Unicef, per esempio, ora parla di 130mila bambini intrappolati ad Al Fashir. Qual è la situazione dal punto di vista umanitario?
Nel Paese in questo momento ci sono una guerra, la peggiore epidemia di colera degli ultimi vent’anni e la carestia. Tre cose che, messe insieme, alzano a dismisura il tasso di mortalità dei civili, soprattutto anziani, malati, donne e bambini, tanto che è difficile quantificare la gravità della situazione: i dati che abbiamo sono parziali e, per esperienza, potrebbero essere sottostimati del 30%.
Detto questo, non so se in questo momento esista uno scenario peggiore dal punto di vista dell’emergenza umanitaria: dobbiamo immaginare il Sudan come una Gaza moltiplicata mille volte.
Sul piano militare la guerra civile a che punto è?
Siamo ancora in una fase di lieve vantaggio per le forze governative, che approfittano del fatto che le Rapid Support Forces (RSF) devono trovare un’alternativa al supporto dell’ex Wagner Group, l’attuale Africa Corps, venuto a calare in modo sostanzioso da quando i russi hanno trovato un accordo di compromesso con il governo sudanese. Le RSF suppliscono a questa mancanza grazie agli emiratini, che hanno messo mano al portafoglio e hanno reclutato mercenari colombiani.
Le RSF hanno tirato i remi in barca in attesa di tempi migliori?
Hanno perso la possibilità, nel breve periodo, di conquistare il potere in tutto il Paese e hanno cambiato strategia, concentrandosi sul quadrante sud e sul Darfur. Vogliono creare una roccaforte nelle regioni meridionali in cui ci sono le miniere d’oro e l’insorgenza etnica è forte, e quindi dove il governo ha meno possibilità, o meno capacità, di condurre una campagna militare efficace.
Al Fashir, nel Darfur, è uno snodo importantissimo: è il principale centro del quadrante sud-occidentale del Sudan sia a livello urbano sia come nodo di comunicazione.
Stanno creando uno stato nello Stato?
Nei fatti, le RSF hanno formato un governo parallelo. E quando una realtà insorgente si muove in questo modo vuole portare il livello dello scontro da un puro piano militare a un piano politico-diplomatico, perché pensa di non poter più conquistare, nel breve, la capitale Khartoum e quindi spodestare l’attuale giunta.
Che accordo è intercorso tra i russi e Al Burhan? Mosca ha finalmente ottenuto uno sbocco sul Mar Rosso?
I russi avevano creato un rapporto privilegiato già con il vecchio dittatore, Al Bashir. Il loro obiettivo principale è avere la concessione di infrastrutture portuali a Port Sudan, nella parte nord-occidentale del Paese sulla costa, una delle principali installazioni portuali del Mar Rosso, che si trova quasi a metà tra Bab el-Mandeb e Suez.
Se i russi riuscissero a mettere navi e infrastrutture lì, creerebbero un problema alle linee di comunicazione che vanno dall’Asia al Mediterraneo, in una tratta fondamentale dal punto di vista commerciale e strategico. Dopo Al Bashir parlarono anche con Al Burhan che, però, sotto pressione degli americani, non cedette alle loro richieste. Per questo i russi iniziarono a sostenere le RSF, insieme agli Emirati Arabi Uniti.
Poi cosa è successo?
Quando gli Stati Uniti hanno diminuito il livello di engagement verso la giunta militare di Al Burhan, i russi si sono rifatti vivi per negoziare, anche se non hanno mollato del tutto le forze di Dagalo, soprattutto per quanto riguarda il contrabbando di oro.
Cosa ha ottenuto Mosca dal governo di Khartoum?
Il Sudan aveva annunciato, a febbraio, un accordo definitivo tra Khartoum e Mosca per una base militare russa. Per realizzarla, tuttavia, occorre tempo. In proposito c’è stato un incontro anche con Lavrov: si tratta di un dossier ben avviato, a meno che Al Burhan non faccia un passo indietro. Se dovessero arrivare l’Europa o gli USA a promettere sostegno, è possibile che il leader delle forze governative cambi ancora idea, vendendosi al miglior offerente.
Visto che le RSF si sono assestate in una parte del Paese, è possibile che la guerra finisca dividendo il territorio in due zone di influenza?
Il Paese, già quando il Sud Sudan si dichiarò indipendente, perse il 90% della sua ricchezza petrolifera, tutti i giacimenti. Se poi viene sottratto anche il Darfur, dove c’è un po’ di petrolio ma anche molto oro e pietre preziose, il Sudan si trasforma in nient’altro che un bassopiano desertico attraversato dal Nilo.
Oltre a Russia ed Emirati, quali sono gli attori internazionali che hanno interessi nell’area ed esercitano la loro influenza?
L’Arabia Saudita e la Turchia, in funzione anti-emiratina. Ankara con l’obiettivo di espandersi strategicamente nel Corno d’Africa e Riyad per ragioni anche legate alla produzione alimentare, perché i terreni intorno al Nilo sono fertili.
Il Sudan confina con la Libia, e Haftar, leader della Cirenaica, sostiene le RSF. C’è la possibilità che la guerra in Sudan alimenti il flusso di migranti verso le coste libiche e l’Europa?
Al momento, il movimento di persone che scappano dalla guerra è più un problema interno al Sudan e chi fugge all’estero, al massimo, lo fa nei Paesi vicini. Il supporto di Haftar all’RSF è concreto e riprende gli schemi della politica gheddafiana, che da sempre guardava ai gruppi antigovernativi in Ciad e in Sudan come interlocutori per indebolire il governo centrale e prendersi le risorse che i gruppi paramilitari controllavano nei territori di riferimento.
Per quanto riguarda eventuali profughi verso l’Europa, il pericolo potenziale c’è sempre, anche se, di solito, quella verso il Vecchio continente è una migrazione economica, non una migrazione umanitaria. Molti di coloro che sono in Sudan oggi non hanno risorse per spingersi troppo lontano.
(Paolo Rossetti)
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