Disponibile su Netflix, in tre episodi, Trainwreck: Woodstock ’99 è la cronaca di un disastro annunciato. Il film, diretto da Jamie Crawford, racconta il tentativo di celebrare 30 anni di quel festival che era impossibile ripetere o imitare, Woodstock 69, tre giorni di pace & amore, come venne definito. Nato sulla spinta di una generazione che realmente voleva cambiare il mondo, quella hippie, si concluse con alcune delle esibizioni più straordinarie della storia del rock, e soprattutto senza nessun morto, nonostante l’uso delle droghe fosse abbondante. Il motivo del successo fu uno solo: si svolse in tempo reale, quando musicisti e pubblico formavano una comunità sola, avevano la stessa età e gli stessi ideali. Nessuno spazio per auto celebrazioni narcisistiche. Ma soprattutto non c’era sfruttamento commerciale, che sarebbe cominciato proprio il giorno dopo la fine del festival. Era ovvio che dopo quell’evento il mondo dell’industria musicale e non solo, anche quelli della moda e del cibo, si scagliasse con i suoi tentacoli su quel mondo, aprendo quel divario che non si è più rinchiuso, fra star e audience. Già nel 1994 l’organizzatore originale, Michael Lang, aveva dato vita a una edizione per il 25esimo anniversario, che aveva visto molti dei protagonisti di allora ormai invecchiati esibirsi con tanta nostalgia, ma anche rispetto. C’era stato un solo problema: dal punto di vista commerciale, era stato un flop. Nessun guadagno, solo perdite.
Nel 1999 però Lang e soci si fanno più furbi: inventano un festival che ha un solo interesse: fare soldi, e tanti.
Viene così scelta una location impossibile, un aeroporto militare dismesso, un’enorme pista di asfalto e edifici di cemento. Il prezzo dei biglietti è alto, ma soprattutto, con cinismo, viene proibito ai partecipanti di portare nell’area del festival anche una bottiglietta d’acqua. Ci si può rifornire solo negli stand delle aziende come la Pepsi o la Budweiser. Inoltre in quei tre giorni dal 22 luglio al 25 luglio il caldo tocca picchi mai visti. 250mila persone asserragliate in una sorta di campo di concentramento.
Le (presunte) buone intenzioni dell’organizzatore Michael Lang intervistato nel documentario crollano inesorabilmente: rifare il festival per i suoi figli adolescenti e sensibilizzare i giovani sul problema delle armi (ad aprile c’era stato il massacro di Columbine), ricordando loro il valore e il potere della contro cultura. Il problema è che nel 1999 di contro cultura non era rimasto niente. L’egoismo narcisista dei figli dei figli dei fiori, cresciuti nel nulla più totale, aveva preso il sopravvento.
Non è un caso che i partecipanti al festival, come si vede, nel film, siano tutti ragazzotti dei college, bianchi, biondi, fisico scolpito con in mente una cosa sola: sballare e fare sesso facile. La cultura delle fraternità universitarie è quella che regola tutto quanto. Non si tirano indietro le ragazze, come si può vedere, mostrandosi a seno nudo e invitanti. Ma anche la scena musicale è cambiata, una line-up che di contro cultura non aveva niente di niente, anzi rappresentava proprio la cultura imperante di fine ’90. Korn, Kid Rock, Limp Bizkit, Rage Against The Machine, Red Hot Chili Peppers. Machismo rock, si può definire. C’è poi un’area molto grande del festival riservata al rave, la cultura della musica dance da sballo, a base di pillole di ectsasy e rinconglionimento tale. Qui ogni sera si ammassano più di 50mila persone in preda al delirio totale fino a quando a una erto punto nell’hangar entra un pulmino. Quando viene fatto fermare, si aprono gli sportelli: dentro si assiste a uno stupro di una ragazzina sedicenne appena terminato.
Prezzi esorbitanti, un caldo devastante, assenza di zone ombreggiate, bagni chimici ridotti a uno schifo, acqua contaminata, spazzatura ovunque, portano i partecipanti alla rabbia. Sarà il cantante dei Limp Bizkit, Fred Durst un bullo muscoloso, gruppo leader del crossover tra rap e hard rock allora di moda, a incitare gli oltre 250mila partecipano alla violenza: “Avete problemi con le ragazze? Coi genitori? Con il vostro capo? Con il vostro lavoro? Ora voglio che prendiate tutte queste energie negative… e le facciate uscire dal vostro corpo!”. Il pubblico non aspettava altro.
Non esiste security, perché gli organizzatori non vogliono divise poliziesche. Solo un non ben identificato “Peace squad”, le squadre della pace, ragazzi senza nessuna formazione professionale, pagati cinquecento dollari per tre giorni che preferiscono sballarsi e fare sesso anche loro.
Alla fine tutto viene dato alle fiamme e ogni cosa distrutta. E’ lo specchio di una società allo sbando, dove impera solo il tornaconto economico, e si usa la folla, che si dimostra, come la storia insegna, manipolabile e strumentalizzabile. C’è un vuoto in quei ragazzi che solo la violenza sembra colmare. E’ in quei tre giorni del luglio 1999 che l’America muore per sempre, affogata nel nuovo “ordine mondiale” quello del vuoto cosmico.