Dalle parti dei “volonterosi” la marcia non è all’unisono. Starmer si sta rivelando più prudente, Macron, al contrario, gioca con la guerra e le istituzioni
Le strada dei due leader “volenterosi” al tavolo ucraino si è vistosamente biforcata davanti ai parlamenti di Londra e Parigi, chiamati a discutere manovre finanziarie tutt’altro che scollegate dagli sviluppi geopolitici.
Mercoledì, ai Comuni, il premier Keir Starmer è riuscito in un indubbio colpo di reni. Dalla “valigetta rossa” della cancelliera dello Scacchiere Rachel Reeves è uscito un budget pesante e aggressivo, capace anzitutto di ricompattare la maggioranza laburista, molto frammentata e disorientata a soli 17 mesi dalla vittoria elettorale.
“Tassa e spendi”: la più classica delle ricette della sinistra europea e stata adottata in una manovra imperniata su un aumento record del prelievo fiscale (26 miliardi di sterline, circa 23 miliardi di euro). “Milioni di famiglie inglesi pagheranno più tasse” ha sintetizzato la Bbc. “Saranno chiamati a uno sforzo maggiore gli inglesi con le spalle più robuste”, ha detto Reeves nell’aula di Westminster. Non solo i contribuenti più ricchi, ma anche la classe media.
Il secondo budget laburista abolisce alcuni scaglioni di reddito e i quozienti familiari. E introduce in via generalizzata – anche se temporanea – una tassa sulla proprietà immobiliare. Un bilancio “lacrime e sangue” ma non per tutti: a beneficio dichiarato, invece, della “working class” martoriata da cinque anni di inflazione e degrado del welfare (anzitutto la sanità pubblica).
L’arco temporale della crisi – Covid e guerre, accompagnati dall’impatto lungo di Brexit sul Pil – ha raggiunto ormai quelli della Seconda guerra mondiale. E non a caso la manovra Starmer appare il contrario di una mossa “churchilliana” – di solidarietà nazionale contro un nemico esterno – e molto più vicina alla “recovery” condotta per sei anni, dall’estate 1945, dal laburista Clement Attlee in una Gran Bretagna messa in ginocchio dalla guerra.
Nell’autunno 2025 un altro conflitto globale è in corso già da quattro anni. In esso Londra ha recitato da protagonista, di fatto braccio operativo della Nato guidata dagli Usa di Joe Biden a supporto della resistenza ucraina alla Russia. Quando l’avvento di Donald Trump ha invertito l’approccio di Washington – fino al tentativo di cessate il fuoco di questi giorni –, Starmer è stato inizialmente tempestivo nel promuovere l’iniziativa dei volenterosi, con l’obiettivo di “garantire sicurezza” all’Ucraina in futuri scenari.
A Londra si è subito affiancato Emmanuel Macron, creando un asse inedito fra la Ue e il Paese Brexiter. Ma a Parigi la strategia willing è stata interpretata in modo via via più bellicista verso Mosca – anche in questi giorni – mano a mano che Trump ha preso a premere su Kiev per accettare un cessate il fuoco.
Starmer – che ha negoziato in anticipo con la Casa Bianca dazi agevolati rispetto alla Ue – è parso invece abbassare progressivamente i toni. E nel suo budget la spesa militare non compare affatto come protagonista. In parte perché generali e 007 del Regno Unito sono generosamente finanziati in via strutturale; in parte perché il budget fresco d’inchiostro sta rassicurando i mercati sul valore sterlina e merito di credito dei titoli di Stato. Londra – sede della City – non avrà problemi a indebitarsi. E comunque: Starmer, apparentemente uscito dall’angolo della leadership Labour, ha sulla carta davanti a sé tre anni pieni prima di affrontare di nuovo le urne.
A Parigi, l’altra capitale volenterosa, la situazione appare opposta. Il presidente ha ancora un solo anni di mandato e non sarà rieleggibile. La Francia appartiene alla Ue ed è vincolata all’Europa. Da 18 mesi il Paese è di fatto senza governo e senza maggioranza parlamentare (perfino il residuo “campo presidenziale” – fluidamente centro-liberale – è in sfaldamento).
È in questo contesto, a 35 giorni dalla scadenza di legge di fine anno, che Parigi è lontanissima dall’avere un budget 2026. Anzi, quello presentato dal premier macroniano Sébastien Lecornu è stato respinto – all’unanimità – dall’Assemblea nazionale dopo un mese di discussione giorno e notte (erano caduti sulle finanze pubbliche i precedenti governi Barnier e Bayrou).
Il Senato (seconda camera francese con poteri correttivi) ha sua volta rigettato la bozza, compromesso confuso di istanze contrastanti. Resta oggetto arroventato del contendere la pretesa dei socialisti per appoggiare Lecornu: sospendere la riforma delle pensioni (in vigore da due anni ma finora solo per decreto “semipresidenzialista”) e finanziare il buco nel welfare con la “tassa Zucman”, una patrimoniale del 2% sui grandi patrimoni di famiglie e holding.
È uno scenario irricevibile per il centrodestra gollista ma anche per una parte del campo macroniano. Senza i voti socialisti, Lecornu sembra però destinato a cadere, mettendo verosimilmente a rischio la stessa permanenza di Macron all’Eliseo fino alla primavera 2027.
È su questo sfondo che Macron ha inscenato ieri un’ennesima mossa bellicista, di antica grandeur parigina: il ripristino della leva – per ora volontaria – anche al fine di predisporre un contingente francese (“europeo” secondo l’Eliseo) da inviare subito ai confini del possibile cessate il fuoco fra Ucraina e Russia. Perché Macron, anche nelle ultime ora lo ha detto chiaramente, non si fida affatto dei due “negoziatori” Trump e Putin. Pretende di essere anche lui al tavolo, dettando regole: anche sugli asset russi al momento congelati in Europa.
La Ue – a cominciare da Ursula von der Leyen, anche sul fronte dazi – esita a metterci le mani sopra per dirottarli a Volodymyr Zelensky, che appena dieci giorni fa ha firmato all’Eliseo un pre-contratto d’acquisto per 100 caccia di produzione francese. Trump e Putin stanno invece ragionando sull’utilizzo di quelle centinaia di miliardi di dollari per la ricostruzione dell’Ucraina su entrambi i lati della linea di un cessate il fuoco di stampo “coreano”.
Se dunque Macron vuol continuare a recitare da volenteroso (magari candidandosi ad “alto commissario Ue” per la ricostruzione ucraina e l’adesione di Kiev all’Unione e alla Nato) al momento non sembra aver scelta: deve finanziarsi dal bilancio nazionale. Che però non esiste neppure, e al momento presenta un deficit ben superiore al parametro Ue del 3%, mentre il rating e quindi il costo del debito francese sono in progressivo peggioramento.
Lo saranno ancora di più se Macron – calpestando le regole Ue – proverà a far approvare la moratoria previdenziale e un possibile aumento della spesa militare senza ricoprirli con appesantimenti fiscali: magari ricorrendo a Natale ai “pieni poteri” che ancora la Quinta Repubblica francese riserva al suo presidente. Anche se la sua popolarità è ridotta all’11%. Anche se quel presidente ha usato quei poteri “trumpiani” per sciogliere il Parlamento, salvo poi rifiutare il responso della democrazia elettorale.
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