Paul Thomas Anderson è un regista di indubbio talento, ma il suo ultimo film "Una battaglia dopo l'altra" non convince del tutto
Il film Una battaglia dopo l’altra inizia a Otay Mesa, centro di detenzione immigrati. Siamo a Tijuana, la famigerata pericolosa frontiera tra Messico e Stati Uniti. Un gruppo organizzato di rivoluzionari (i French75) combatte l’arrembante capitalismo miope e crudele del Governo di alcuni decenni fa, liberando le gabbie nelle quali vengono rinchiusi i colpevoli “frontalieri”. A fomentare il gruppo la pasionaria Perfidia Beverly Hills, un sensuale donnone afro-americano che travolge con la sua carica rivoluzionaria i suoi amici e i suoi nemici.
Ma qualcosa va storto. Qualcuno muore, qualcuno sopravvive, qualcuno sparisce. Sedici anni più tardi, Bob Ferguson, amato promesso sposo di Perfidia e frustrato rivoluzionario mancato, si ritrova a gestire l’irruente adolescenza della figlia Willie, che cerca di proteggere da se stesso e dai fantasmi del passato.
Iniziamo da un nome, quello del regista: Paul Thomas Anderson. Basta questo per connotare la qualità del film Una battaglia dopo l’altra, che non si discute. Come non si discute la regia di un talento che sta facendo la storia del cinema.
Doverosa premessa, per ricordarci del suo recente Licorice Pizza, dell’iconico Magnolia, dell’inquietante The Master e del prodigioso Petroliere, che è già storia del cinema.
PTA racconta il passato americano delle rivoluzioni sociali e il suo presente, altrettanto rivoluzionario, affidato all’indecifrabile Demiurgo della decadenza, che domina il nostro tempo. Ecco, la decadenza. Quella dei rivoluzionari in vestaglia, come il protagonista Bob Ferguson (DiCaprio), il cui genuino imperativo al cambiamento ha finito per castrarsi in una vita di droghe, paure e rimpianti.
La decadenza dei rozzi militari, che vediamo nel colonnello Lockjaw (Sean Penn), che “stringe le mascelle”, serve il suo Paese con cieco fanatismo e brutale aggressività, per poi piegarsi alle sirene della passione e dell’ambizione.
La decadenza dei potenti, che governano il mondo fuori dal mondo, accecati dal bagliore di se stessi, rigorosamente bianchi, suprematisti, razzisti, parareligiosi e invasati. La decadenza di padri e madri, traditori di sé e della propria prole e del loro diritto al futuro.
In questo disordine reazionario, la fragile Willa, figlia del naufragio dei sogni e degli ideali (dei suoi), cerca una nuova via, una nuova verità, una nuova vita. E forse è quello che ognuno di noi cerca, in questa finestra globale senza bussola, né umanità.
La figura migliore la fanno forse i migranti lungo la pericolosa frontiera del Messico che, liberati dalle gabbie di detenzione, provano a ricostruirsi una vita dignitosa, abbracciati tra loro, guidati da un forte senso di comunità e difesa. Quella che Sensei Sergio St. Carlos (Benicio del Toro) prova a garantire a chi si nasconde per vivere.
C’è tutto questo nella storia di Anderson, che è quella di Pynchon e del suo romanzo “Vineland”, da cui il regista ha preso ispirazione. C’è tutto questo e molto di più in Una battaglia dopo l’altra, un film rocambolesco, di 2 ore e mezzo, che si trasforma mentre si svolge.
Viviamo la paura, l’amore folle, la lealtà, il tradimento, la fuga, la violenza, la follia omicida e l’assenza di senso. Viviamo tensione e sorriso. Orrore e stupore. Viviamo la sfida tra i titani DiCaprio e Penn, inequivocabili colonne della coraggiosa scommessa di Anderson, falliti antieroi da dimenticare. Bravi, anzi superlativi, ma tristemente spuntati.
Il grottesco che aleggia sul film Una battaglia dopo l’altra, per poi impadronirsene definitivamente, sconvolge gli equilibri mentali, travolge il ritmo, camuffa la verità della denuncia e derubrica il film da feroce capolavoro di battaglia in sfizioso divertissement che graffia senza ferire. È l’arma a doppio taglio del genere, che mi porta a pensare alla nuova battaglia cinematografica di Anderson come a una sconfitta. Nonostante tutto il valore che ho visto, e che ho provato a raccontarvi.
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