SIRIA/ Bertinotti: la fede del Papa è il desiderio di pace del nostro popolo

- int. Fausto Bertinotti

Un grido condivisibile da tutti, che viene dal profondo dell'umano, e che il nostro popolo ha fatto proprio. FAUSTO BERTINOTTI fa suo l'invito di papa Francesco a fermare la guerra

papa_luce_R439 Papa Francesco (Infophoto)

“Mai più guerra”: il grido di Francesco continua a riecheggiare davanti al possibile scenario di una guerra che, come lui stesso ha detto, potrebbe avere conseguenze mondiali. “Mai più guerra”: è un grido che vale solo per i credenti o è ragionevole e condivisibile per tutti? Il fatto che questa nuova possibile guerra venga dichiarata da un uomo di sinistra, il presidente americano Obama, che cosa significa? Ilsussidiario.net lo ha chiesto all’ex presidente della Camera, Fausto Bertinotti, leader storico della sinistra italiana: “Il grido del Pontefice” ha detto “è qualcosa che muove dal profondo dell’umano e tocca tutti, credenti o non credenti e coglie un’istanza molto profonda che si leva dalle parti migliori del mondo. Vale dunque per tutti”.

Il grido del Papa contro la guerra per lei è qualcosa di ragionevole e condivisibile sempre, o è solo una posizione dettata dalla fede?
La testimonianza forte del Pontefice interviene in una congiuntura drammatica di fronte a una crisi che un intervento militare in Siria non solo peggiorerebbe la situazione, ma come il Papa stesso ha detto potrebbe anche produrre delle conseguenze incontrollabili e devastanti. C’è una motivazione però, a me pare, in questo appello del Papa e in quel suo riferirsi a un grido che sale da tutte le parti del mondo e da tutti i popoli.

Quale motivazione?
E’ qualcosa che muove dal profondo dell’umano. Nel dire il suo no alla guerra il Papa coglie questa istanza molto profonda e secondo me insita nelle parti migliori del mondo, quelle che hanno fatto valere quello stesso anelito alla pace mai più sentito dopo la fine della Seconda guerra mondiale. In questo senso vorrei dire che la Costituzione italiana contiene un urlo analogo.

Sta parlando dell’articolo 11 della Costituzione?
Esatto: in quell’articolo c’è un urlo contro la guerra assolutamente irriducibile, con quel termine scelto che dice di “ripudiare” la guerra. Certo a quei tempi venivamo da 55 milioni di morti e dal genocidio degli ebrei, però c’è di più che una ribellione in quelle parole, c’era veramente il progetto di un mondo. Le parole del Pontefice dunque, che hanno una forte legittimazione che viene dalla fede, ne hanno anche una che viene da quel secolo e dalla politica più nobile. Vedo una consonanza tra la cattedra della fede e una cattedra politica come fu l’assemblea costituente.

Restando a questo momento così drammatico, le parole del Papa che altro le suggeriscono?
Quando il Papa parla non posso che ricordare quando non molti anni fa opponendoci a un’altra guerra che purtroppo vide impegnato anche il nostro Paese, quella giornata in cui in tutto il mondo più di 10 milioni di persone manifestarono per la pace contro la guerra insieme a un altro Papa. Oggi questo appello potrebbe essere l’occasione data a chiunque per muoversi contro la guerra e incontrare i bisogni profondi dei popoli del mondo.

Questa guerra, però, come purtroppo altre in tempi recenti, soffre di quell’inghippo che può farle sembrare giustificate, quello delle guerre cosiddette umanitarie per un intento di giustizia.

Intanto cominciamo dal sottoporre a critica le nozioni e le mozioni attraverso le quali vengono dichiarate le guerre. A partire dal concetto che le guerre le fanno sempre i più potenti, non quelli che hanno di meno. Ci sono dietro interessi materiali di dominio, delle operazioni culturali di cattura del consenso. Abbiamo visto all’opera in questo quarto di secolo due di queste guerre, la prima è quella che ha citato lei e cioè l’intervento umanitario, nel tentativo di fermare una violenza deflagrante dove le vittime sono bambini e donne. Tragedie che ci colpiscono tutti e che tutti vorremmo fermare, dal Kosovo alle guerre successive. Guerre mosse da motivi umanitari si rivelano però frutto di logiche di potere e non centrano l’obiettivo, anzi incendiano altri fuochi invece che spegnere il fuoco della morte. 

Il secondo tipo di guerra invece? 
Il secondo è quello coniato dai neocon americani, esportare cioè la democrazia in quei paesi dove c’è il dittatore crudele e che dovrebbero essere avviati alla democrazia dell’occidente. Esse hanno prodotto solo dei disastri. Se dovessimo fare il bilancio di queste guerre dovremmo constatare che hanno alimentato il fondamentalismo. In Iraq c’era convivenza di etnie e religioni diverse e invece questi paesi sono piombati nella violenza più totale. 

In questo contesto il pacifismo che valenza può ancora avere? 
Devo dire per onestà intellettuale che nel pacifismo in cui milito la ragione del problema, la denuncia dell’aggravamento prodotto dalla guerra, la responsabilità umana che esprime, purtroppo non ci dà la chiave di volta davanti a queste guerre. Io credo che essa vada trovata nel riconoscimento dell’altro, della diversità, della convivenza, dell’amore, un termine in disuso che invece ci può fare fratelli. 

Ha colpito un po’ tutti che ora la guerra possa venire da un presidente come Obama, considerato uomo di sinistra e oppositore delle guerre. 
Forse per la povertà di leadership politiche in Europa siamo tutti indotti a guardare con simpatia e benevolenza ad Obama. Allo stesso tempo non mi sento di criticare un presidente che è portatore del dubbio come si è dimostrato nel suo discorso. Attraverso questo dubbio, dicono i suoi detrattori, si sarebbe mostrato fragile. Io dico benvenuto a questo dubbio e a questa fragilità, se sei un potente di fronte a una scelta così drammatica. Il decisionismo in guerra è la cosa peggiore. Purtroppo invece non può stupirmi l’atteggiamento di molta sinistra europea, ne abbiamo avuto il caso più clamoroso con Blair che è stato uno dei portatori più determinati di una guerra sbagliata e bugiarda. Speriamo che Obama possa sottrarsi a questa maledizione. 

Ha stupito positivamente invece che l’Italia, forse per la prima volta, abbia detto di no agli Stati Uniti. 

In realtà l’Italia, anche se in passato ha avuto molte manifestazioni di sudditanza verso gli Usa, ha anche avuto nella sua storia una sua vocazione e una certa autonomia. Pensiamo al Mediterraneo, pensiamo a Mattei e a uomini appartenenti al mondo cattolico. Potrei nominare anche moltissime esperienze della sinistra: Craxi ad esempio, da cui sono notevolmente lontano dal punto di vista politico, con Sigonella dimostrò assoluta autonomia dall’America. C’è sottobanco in Italia una componente di autonomia dagli Usa e al dialogo nel Mediterraneo considerato come un mare di pace. Ho comunque trovato l’atteggiamento del ministro Bonino ineccepibile. Anche qui le distanze sono grandissime, però onore al merito alla posizione del ministro, che mi sembra francamente un punto da condividere anche per chi come me è avverso a molti aspetti di questo governo. 

Il ministro Bonino ha aderito alla giornata di digiuno proclamata da Papa Francesco. Che cosa significa per lei un gesto di questo tipo, può sortire per così dire degli effetti anche per chi non è credente? 
Credo che il digiuno, lo sciopero della fame per la pace sia entrato in un linguaggio politico assai vasto e articolato, anche per chi è diversamente laico. E’ una testimonianza importante, fa leva su una cultura profonda, quella della non violenza. La non violenza dovrebbe essere un soffio che alimenta la politica della pace, essere una componente di futuro che alimenta e la rende forte, la fa sopravvivere alla sconfitta. Secondo me il digiuno è una di queste forme delle pratiche non violente che va molto apprezzata e anche praticata.

(Paolo Vites) 





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