LETTURE/ Benjamin, la morte della narrazione e la fine della verità

- Emmanuele Riu

La consapevolezza di trovarsi in un'epoca di crisi è sempre più radicata in Benjamin, che dopo l'intervento su Kafka ne dedica uno al "narratore". Una profezia del presente. EMMANUELE RIU

walterbenjaminR439 Walter Benjamin (1892-1940) (Foto dal web)

Gli anni Trenta sono per Walter Benjamin anni di profondo sconvolgimento interiore e allo stesso tempo di profonda maturazione intellettuale. La consapevolezza di trovarsi in un’epoca di crisi è sempre più radicata in lui ed è così che, poco dopo il suo intervento su Franz Kafka, Benjamin realizza lo splendido saggio intitolato Il narratore. Considerazioni sull’epoca di Nicolai Leskov, pubblicato nell’ottobre 1936 sulla rivista svizzera Orient und Occident (e presente anch’esso, come il saggio su Kafka, nella raccolta Angelus Novus).

“Il narratore — per quanto il suo nome possa esserci familiare — non ci è affatto presente nella sua viva attività. È qualcosa di già remoto, e che continua ad allontanarsi”. Questo l’esordio spiazzante del saggio.

La narrazione è da sempre al centro della vita dell’uomo, come strumento di comunicazione, come possibilità di trasmissione della tradizione, come oggetto di indagine e di riflessione critica. Roland Barthes ha scritto che “il racconto è presente nel mito, le leggende, le favole, i racconti, la novella, l’epopea, la storia, la tragedia, il dramma, la commedia, la pantomima, il quadro [….], le vetrate, il cinema, i fumetti, i fatti di cronaca, la conversazione, ed inoltre sotto queste forme quasi infinite, il racconto è presente in tutti i luoghi, in tutte le società: il racconto comincia con la storia stessa dell’umanità; non esiste, non è mai esistito in alcun luogo un popolo senza racconti; tutte le classi, tutti i gruppi umani hanno i loro racconti e spesso questi racconti sono fruiti in comune da uomini di culture diverse, talora opposte. […] Il racconto è come la vita” (Introduzione all’analisi strutturale dei racconti, in AA.VV. L’analisi del racconto, Bompiani 1969). 

Benjamin ha una coscienza cristallina dell’importanza della narrazione nell’esistenza dell’uomo, quasi fosse connaturata ad essa, e scrive: “L’esperienza che passa di bocca in bocca è la fonte a cui hanno attinto tutti i narratori. E fra quelli che hanno messo per iscritto le loro storie, i più grandi sono proprio quelli la cui scrittura si distingue meno dalla voce degli infiniti narratori anonimi”. Se dice il vero il detto popolare per il quale “chi viaggia ha molto da raccontare”, scrive Benjamin, uno degli esponenti arcaici della figura del narratore sarà il mercante navigatore; dall’altra parte, troveremo l’agricoltore sedentario, dal momento che si ascolta volentieri anche chi è rimasto onestamente nella sua terra, arrivando a conoscerne alla perfezione storie e tradizioni. La genialità icastica di Walter Benjamin ci conduce quindi a scoprire come la due figure si siano compenetrate in quella che egli chiama “la scuola superiore” della narrazione: l’artigianato medievale. Nelle stesse botteghe infatti si trovano a lavorare insieme il maestro stabile e il garzone errante, ed è così che si uniscono la conoscenza di paesi lontani conquistata da chi ha molto viaggiato e la consapevolezza del passato, che appartiene piuttosto ai residenti.

Nicolai Leskov, nato e vissuto in Russia nel XIX secolo, è a detta di Benjamin uno degli ultimi esempi di narratore, che si trova “a suo agio nella lontananza dello spazio come in quella del tempo”. Ma se Franz Kafka era stato (ed era ancora nel 1936) per Benjamin una sorta di alter-ego con cui dialogare e con cui lottare, l’autore russo — benché non scelto a caso — è per lui poco più di un pretesto per una ricognizione sulla narrazione e sulla sua scomparsa. In realtà, il saggio su Leskov possiede la caratteristica di tutti gli scritti benjaminiani: essi sono infatti solo le tappe, ponderate e meditate, di un lungo viaggio, le impronte pesanti e profonde sul terreno di un lungo percorso. O ancora, avvicinandoci maggiormente ad un’immagine cara a Benjamin, essi sono come tessere di un mosaico che brillano di luce propria ma che acquistano vero significato solo se ricollocate nel loro grande sfondo.

Ed ecco che il saggio sul narratore va a collocarsi nella scia di due grandi temi, che costituiscono alcuni dei principali aspetti della lotta di Benjamin contro (o nella) modernità, una lotta in cui “teologia e materialismo stringono una paradossale alleanza contro ogni specie di mito moderno” (Renato Solmi). Il primo aspetto è sicuramente il linguaggio. Fedele sui generis alle proprie radici ebraiche, Benjamin considera il linguaggio come il deposito primario, se non proprio l’unico, della verità. Se per i cabalisti il linguaggio ha un valore mistico, come riflesso del linguaggio creativo di Dio (“Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu”, Gen. 1,3), Benjamin non è molto distante nel considerare Adamo, e non Platone, il padre della filosofia, il “datore dei nomi”, nomi che presentano “l’essere sottratto ad ogni fenomenalità”, potremmo dire ad ogni contingenza e nella sua essenza più pura. Solo il linguaggio dell’uomo possiede questa condizione di universalità, e la degenerazione moderna ha condotto drammaticamente al suo svuotamento: alla “conoscenza” vera, attraverso il linguaggio nella sua origine divina, Benjamin oppone l'”informazione”, la parola giornalistica, che non ha più nulla da dire all’uomo pur sommergendolo con il suo vociare incessante. Sembra quasi di assistere ad una elaborazione ante litteram dell’odierna concettualizzazione della cosiddetta post-truth, fatta salva la maggiore, inevitabile profondità culturale e di significato sottesa all’analisi di Benjamin rispetto all’utilizzo che si fa sui quotidiani e sui blog del termine scelto dall’Oxford Dictionary. Viene da chiedersi anzi se la società contemporanea non sia scesa ancora un gradino più in basso rispetto al mondo osservato dall’intellettuale tedesco: là il problema era la mera informazione a scapito di un contenuto di verità, di esperienza; oggi il problema è la veridicità o meno delle informazioni stesse, come se in fondo non si potesse ambire a qualcosa di più di questo, attraverso il linguaggio e la comunicazione. Sarebbe interessante poter sentire Benjamin in proposito.

L’altro polo del discorso benjaminiano a cui fa riferimento il saggio sulla narrazione è invece la dicotomia Erfahrung-Erlebnis, cioè l’opposizione dinamica fra esperienza autentica, accumulata, ed “esperienza di vita”, povera e svuotata (il teorico di quest’ultima era stato Wilhelm Dilthey, ripreso e rielaborato da Husserl). Esse sono rispettivamente l’origine pura e spuria della creazione letteraria. L’uomo moderno ha perduto la propria Erfahrung, la propria esperienza più profonda e sottratta al contingente, e la società massificata vi ha sostituito l’Erlebnis, privando l’uomo di un contenuto vero da comunicare. Ritorniamo dunque all’esordio del saggio, laddove si dice che la figura del narratore è sempre più lontana, e che l’arte del narrare si avvia al tramonto. Per quale motivo? Vale la pena ripercorrere per intero le parole di Benjamin: “Capita sempre più di rado d’incontrare persone che sappiano raccontare qualcosa come si deve: e l’imbarazzo si diffonde sempre più spesso quando, in una compagnia, c’è chi esprime il desiderio di sentir raccontare una storia. È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze”. 

E continua: “Una causa di questo fenomeno è evidente: le azioni dell’esperienza sono cadute. E si direbbe che continuino a cadere senza fondo. Ogni occhiata al giornale ci rivela che essa è caduta ancora più in basso, non solo l’immagine del mondo esterno, ma anche quella del mondo morale ha subito da un giorno all’altro trasformazioni che non avremmo mai ritenuto possibili”. 

È noto che la narrazione diventa possibile laddove si presupponga un senso, che sia immanente alla realtà stessa o che sia presente nell’occhio selettivo di chi osserva e narra (o, perché no, contemplando entrambe le possibilità). Ed è stato detto che “l’assenza di capacità narrativa o un rifiuto di essa comporta un’assenza o un rifiuto del significato stesso” (H. White, Forme di storia. Dalla realtà alla narrazione), o che “il tempo diviene “tempo umano” nella misura in cui è articolato in un racconto” (P. Ricoeur, Intervista a Le Nouvel Observateur). Il fascino del saggio di Walter Benjamin, con il suo acume tagliente e le sue dolorose constatazioni, costituisce per il lettore un invito a riscoprire la grandezza della narrazione, non solo attraverso la lettura ma anche tramite il racconto di sé e della propria vita. Raccontarsi per intraprendere un viaggio verso la scoperta di un significato nella propria esistenza, nella propria esperienza.





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