SPY FINANZA/ Qe, il “fallimento” che riavvicina la crisi

- Mauro Bottarelli

Le politiche di Quantitative easing sono quelle cui stanno puntando le principali banche centrali di tutto il pianeta. MAURO BOTTARELLI ci mostra i loro difetti

bce_eurotowerR439 Infophoto

Benvenuti in Giappone. Con la deflazione ormai incorporata nel sistema e i mercati che scommettono per l’avvio del Qe della Bce già da questo fine mese, i rendimenti obbligazionari europei si sono schiantati ai minimi di sempre, come ci dimostra il primo grafico a fondo pagina. Il bond tedesco a 5 anni venerdì scorso ha registrato yield negativo per la prima volta da sempre, toccando quota 0,007% nel primo giorno di trading del nuovo anno, un fatto che implica come gli investitori siano pronti a pagare il governo tedesco affinché questo custodisca il loro denaro per il resto della decade. Ma anche i rendimenti italiano, spagnolo e portoghese sono letteralmente crollati negli ultimi giorni, con i Bonos addirittura sotto i 100 punti base di spread contro il Bund, mentre la Francia raccoglie denaro a 5 anni pagando solo lo 0,13% e l’Irlanda lo 0,32%.

Non si vedeva nulla di simile in Europa dal XIV secolo, quando Edoardo III fece default sul debito verso le banche italiane e la “morte nera” mieteva milioni di vittime, un combinato che portò a un collasso deflazionistico. Andrew Roberts, capo del credito a Rbs, non ha dubbi: «Stiamo assistendo alla giapponesizzazione del trading, l’eurozona sta sprofondando in una deflazione corrosiva e penso che sia troppo tardi per fermare questa dinamica. Penso che il tasso di inflazione di dicembre risulterà già negativo, alla Bce sono nei guai seri e lo sanno».

D’altronde, le parole di Mario Draghi nella sua intervista di venerdì al quotidiano economico tedesco Handelsblatt erano quasi un’ammissione di fallimento rispetto al mandato statutario di controllo della stabilità dei prezzi: ancora una volta il governatore ha parlato di “preparazioni tecniche in corso” per aumentare lo stato patrimoniale all’inizio del 2015, ma non ha offerto dettagli né sul quantitativo di denaro che verrà messo in campo, né sul tipo di acquisti che verranno fatti, in primis quelli di bond sovrani.

Non importa che nella sua vaghezza Draghi abbia ribadito che queste misure avranno dei caveat e che saranno implementate solo di fronte a un prolungato periodo di bassa inflazione, gli investitori hanno voluto leggere quelle parole come una chiara indicazione di Qe in arrivo già alla riunione del board prevista per il 22 gennaio. Peccato che a oggi, se la Bce decidesse di intervenire su larga scala, non ci siano già più offerta di bond sufficiente da parte di alcuni Stati membri, tanto che Bank of America fa notare come la carenza più grande sarà proprio quella di debito tedesco, visto che Berlino quest’anno punta a gestire un surplus di budget, quindi ritirerà gradualmente bonds più che emetterne: a quel punto, in tre giorni di trading la Bce avrà comprato tutto il debito greco o lettone sull’open market e si ritroverà con una pistola ad acqua al posto del bazooka.

Sempre la banca Usa prevede acquisti di bond sovrani per un importo annuale tra i 180 e i 360 miliardi di euro, parlando di «outlook economico destinato a peggiorare sostanzialmente» se l’Eurotower non darà vita al Qe per ragioni politiche, leggi dissidi Draghi-Weidmann, con la Bundesbank che ritiene il calo del prezzo del petrolio una dinamo sufficiente alla ripresa e punta a togliere dal tavolo di discussione lo stimolo monetario. Tanto più che negli ultimi giorni dalla Germania arrivano segnali sempre meno equivocabili: Michael Fuchs, uno dei leader dei Cristiano Democratici e ascoltato consigliere di Angela Merkel, ha infatti avvertito Draghi del fatto che un Qe servirebbe soltanto a togliere pressione agli Stati in crisi e permetterebbe loro di rimandare le riforme.

Di più, per Fuchs un addio della Grecia all’eurozona non potrebbe che rafforzare l’Unione e per questo la Bce non dovrebbe interferire, cercando di mantenere gestibile il debito dei paesi periferici. Non siamo alla Rupe Tarpea ma manca poco, visto che per Fuchs «la situazione ora è completamente cambiata, era molto più critica tre o quattro anni fa. La Grecia pesa a malapena per l’1% del Pil dell’eurozona, questo dimostra che non rappresenta più un rischio».

Peccato per due cose: primo, che se la Grecia oggi può essere lasciata al suo destino è solo perché per salvare i bilanci delle banche tedesche stracariche di immondizia ellenica su cui speculavano, tentare di salvare Atene ci è costato dieci volte tanto e ha ottenuto come unico risultato il fatto che i soldi dei contribuenti europei finiscano ad Atene non per far ripartire l’economia del Paese ma per pagare gli interessi sul debito detenuto ancora da istituti bancari e fondi. Secondo, il rischio Grecia per gli asset markets c’è, per il semplice fatto che questi stanno già prezzando il Qe in arrivo e fingono di non sentire le sirene d’allarme che arrivano da Berlino: a quel punto, in caso di ulteriore incertezza, Atene non sarà la bomba, ma certamente il detonatore.

Che fare, quindi? Molti pensano che alla fine Mario Draghi dovrà accettare un compromesso, ovvero una formula light per il Qe in base alla quale le varie banche centrali dei vari Stati membri compreranno solo debito del proprio Paese, senza una condivisione del rischio: peccato che questo non solo potrebbe frammentare ulteriormente l’eurosistema, ma potrebbe fin da subito instillare dubbi negli investitori sulla reale efficacia del Qe, innescando fughe pericolose dai mercati. Tant’è, la Germania comunque sia non accetta e non accetterà nessun atto che sia o possono essere letto come prodromico all’unione fiscale.

Ma c’è anche un effetto parallelo innescato dalle parole di Mario Draghi, ovvero portare l’euro ai minimi dal giugno 2010 rispetto al dollaro: gli ultimi, recenti dati Cofer del Fmi dimostrano come le banche centrali dei Paesi del G10 e dei mercati emergenti siano diventate venditrici nette di bond dell’eurozona nel terzo trimestre del 2014, mentre calcoli di Nomura ci dicono che la percentuale dell’euro a livello di riserve estere globali è scesa dal 26% al 22,6% negli ultimi quattro anni, con il dollaro invece a quota 62,3% e in continua crescita, questo nonostante il rafforzamento del biglietto verde. Per Jens Nordvig della banca d’investimento giapponese, «questo è straordinario. Normalmente le banche centrali misurano le mosse del settore privato e appianano alcune delle fluttuazioni attraverso il rifornimento di riserve, ma questa volta non lo stanno facendo. Penso che potremmo vedere l’euro calare a 1,15 sul dollaro entro un mese o due».

Insomma, il momento è di quelli a dir poco delicati. Il problema, però, a mio avviso è alla radice: ovvero, il Qe come metodo straordinario di intervento riesce davvero a battere le forze deflazionistiche attraverso lo stimolo all’economia? No. Il terzo round di Qe della Fed ha fallito in pieno questo compito, così come sta fallendo in Giappone, Paese che già in passato aveva tentato questa carta, dimostratasi inefficace, visto che dopo dieci anni dal primo intervento in tal senso della Bank of Japan il Paese era rimasto in deflazione, con un generale calo dei salari e dei prezzi che intrappolavano l’economia. La Banca centrale nipponica iniziò il Qe nel 2001 e i fatti, non i pareri, hanno dimostrato che mantenere i tassi praticamente a zero per un periodo troppo prolungato di tempo ha determinato un effetto contrario a quello desiderato rispetto alla ripresa economica: non a caso, dopo cinque anni di graduale espansione degli acquisti obbligazionari, nel 2006 la BoJ abbandonò il programma.

Per due anni, fino al 2003, sembrò che il programma stesse riuscendo a stabilizzare l’economia e bloccare il crollo dei pezzi, ma la deflazione poi tornò, di fatto inchiodando la Bank of Japan nell’angolo, incapace di approntare in fretta un piano B (lo stesso che Mario Draghi ha ammesso non esista nemmeno per l’eurozona). E oggi, con l’Abenomics che di fatto è un “all in” sul mercato non solo obbligazionario? Salari in calo, inflazione che torna a scendere, economia grippata, come vi ho dimostrato nei giorni scorsi. Persino la Bank of England, la quale ha dato vita a un diverso ma sostanziale Qe, sta facendo i conti con tassi di inflazione che calano, così come la Cina che è precipitata in deflazione.

Insomma, al netto di un diluvio di stimolo monetario, il mondo intero è a rischio deflazione. Perché? Perché il Qe non ha ottenuto i risultati che si era prefisso e per cui era stato disegnato? Quattro ragioni, principalmente: il Qe non fa altro che fornire enormi quantità di soldi a banche che sono degli zombie ma troppo grandi per fallire; i grandi istituti usano quei soldi per speculare invece che per stabilizzare i loro bilanci e fornire credito all’economia reale e ai cittadini; la speculazione e la mancanza di erogazione del credito fanno decrescere la vitalità dell’economia reale; questa dinamica porta a deflazione, non a inflazione.

E questo anche per un’altra ragione, un qualcosa che ci riporta indietro al sistema monetario della Roma imperiale e al funzionamento di quel tipo di dinamiche: ovvero, la valuta dell’economia dominante è sempre utilizzata dalle nazioni che la circondano. Conseguentemente, la storia recente dimostra che i tre cicli di Qe della Fed non hanno creato inflazione per il semplice motivo che i dollari creati sono stati assorbiti a livello globale: insomma, i biglietti verdi stampati non sono confluiti e poi rimasti nell’economia nazionale, ma sono finiti all’estero, ovunque nel mondo interconnesso finanziariamente. In parole povere, il Qe è fallito nel suo obiettivo inflazionistico perché gli Usa non possono stampare tutti i dollari che il mondo chiede.

Quindi il Qe è ontologicamente deflazionistico? Sì. Ecco il perché, sinteticamente: una banca centrale che mette in campo il Qe è certamente già al confine dell’area di tassi a zero e crescita zero; il Qe aiuterà soltanto a togliere l’economia da quel confine se pareggiato da un’aspettativa di inflazione più alta in futuro; se una banca centrale sta mettendo in campo il Qe per un periodo prolungato di tempo, questo significa che non è riuscita a pareggiare la sua azione con un’aspettativa futura di inflazione più alta; un Qe prolungato è un segnale effettivo del fatto che la Banca centrale non ha la volontà o non può di offrire un’aspettative di inflazione più alta; il Qe rinforza le aspettative sul fatto che l’economia viaggerà sotto il suo potenziale e gli shock della domanda non potranno garantire un offset completo; il Qe è associato quindi a trend generali non inflazionistici.

Non ci credete? Guardate il primo grafico a fondo pagina: ci mostra i breakevens a 5 anni a partire dal settembre 2012, quando la Fed diede vita al terzo ciclo di Qe, il primo programma di stimolo che non aveva una data di fine già prefissata. Di una cosa sono certo: non vorrei essere Mario Draghi.

 

P.S.: E attenzione agli altri focolai di crisi nel mondo, quello più lontano e apparentemente insignificante. Guardate quest’ultimo grafico, l’ex repubblica sovietica del Turkmenistan, ricchissima grazie all’energia, giovedì scorso ha visto la sua moneta svalutata rispetto al dollaro del 18%, ultimo segnale di diretto contagio del crollo del rublo: lo stesso Kirghizistan ha visto crollare la sua divisa del 17% e anche il Kazakhistan del 14%.

Cosa c’entra questo con il discorso che abbiamo affrontato nell’articolo? Tutto si tiene, perché questo è la dimostrazione di un contagio deflazionistico in atto che spingerà ancora il dollaro verso un rafforzamento, un qualcosa che un veterano come Martin Armstrong ha descritto così: «Siamo nel pieno di un grande collasso economico su scala globale. Molta gente non capisce quale sia la vera minaccia che stiamo affrontando». Sono totalmente d’accordo con lui.

 







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