SPY FINANZA/ I 5 indizi per credere a una nuova crisi dei mercati

- Mauro Bottarelli

Per MAURO BOTTARELLI oggi ci sono almeno cinque segnali a indicare che qualcosa di brutto sta avvenendo sui mercati e che potrebbe arrivare una nuova crisi finanziaria

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L’aspetto più pericoloso delle crisi finanziarie è la sottovalutazione – o, peggio, l’ignoranza – dei segnali premonitori che i mercati ci danno nell’imminenza di una loro esplosione. Cogliere quei segnali, infatti, a volte fa la differenza tra sopravvivere o perire ai downturn dei mercati che si susseguono ciclicamente. E anche oggi sono almeno cinque le sirene lampeggianti che ci dicono che non va affatto tutto bene. 

Primo, i margini di profitto in calo. Certo, io magari esagero quando dico che siamo già in recessione nuovamente, ma sempre più osservatori ammettono che l’attuale debolezza economica è tipica della fase finale di un ciclo di business: ovvero, recessione non nel breve ma nel medio termine. Inoltre, storicamente i roll-over dei profitti coincidono quasi sempre con l’inizio della discesa verso una stagione recessiva. Il perché è presto detto, visto che la diminuzione dei profitti riflette un’economia che si è indebolita a tal punto che le aziende non sono più in grado di tagliare i costi, operare buybacks azionari o stressare i conti abbastanza da mantenere i margini in crescita. 

Il primo grafico a fondo pagina mette in prospettiva la situazione attuale. Siamo nel settimo anno di una ripresa ciclica e di un mercato del toro, tanto che in questo lasso di tempo le azioni sono triplicate: insomma, il business cycle è verso la fine, non certo all’inizio. Anche perché questa dinamica sui profitti va a inserirsi in un contesto macro di dinamiche salariali deboli, debito privato relativamente alto per gli standard storici rispetto al reddito disponibile e mancanza di strumenti di leva monetaria, visto che i tassi sono ormai a zero da anni (a meno che la Fed non scelga l’opzione nucleare di tassi negativi). Insomma, se davvero si sostanzierà la recessione da profitto, allora sarà l’intero spettro dell’economia reale a patire il colpo, non solo la finanza. 

Secondo segnale, il margin debt in calo, come ci mostra il secondo grafico. Se infatti l’aumento eccessivo dell’indebitamento per acquistare titoli alla Borsa di New York segnala l’abuso del leverage e quindi il rischio di margin calls in caso di variazione al ribasso dei corsi, anche la sua contrazione indica qualcosa. Per l’esattezza, la perdita di fiducia degli investitori e il possibile ingresso in mercato dell’orso, almeno stando alle dinamiche e alle analisi di domanda-offerta. 

Parlando del livello di leva cui si è arrivati, alcuni analisti descrivono la situazione come «benzina che attende l’arrivo di un fiammifero», ovvero se anche un singolo ma determinante evento dovesse accadere e innescasse un’ondata di vendita, allora il primo ciclo di margin calls sarebbe pronto a partire. Visto che il margin debt altro non è se non una funzione del valore del collaterale sottostante, la vendita forzata di assets ridurrebbe il valore di quel collaterale e innescherebbe ulteriori margin calls, le quali aumenterebbero la pressione alla vendita generando altre margin calls, avanti e avanti. Il problema è che è difficile capire e identificare quale sia il livello di calo del mercato necessario per innescare le margin calls, quindi occorre prendere molto sul serio i movimenti ribassisti che potranno incorrere nelle prossime settimane. E non farsi prendere alla sprovvista, come accadde come Lehman Brothers. 

Terzo segnale, l’economia reale e i dati macro. Di fatto, in un mercato sano i prezzi degli assets sono il riflesso della crescita economica sottostante e nell’attuale ciclo economico siamo decisamente lunghi. Il primo grafico a fondo pagina è relativo all’Economic Output Composite Index (Eoci), il quale comprende il Chicago Fed National Activity Index (un ampio misuratore con 85 sotto-componenti), i sondaggi regionali della Fed sul comparto manifatturiero, l’indice Nfib, l’indice Lei e il Chicago Pmi, altro indice manifatturiero: la correlazione tra questo maxi-indice e la reale attività economica è altissima. Come notate, oggi l’indice Eoci è sceso ai livelli raggiunti i quali negli scorsi anni la Fed ha dato vita a manovre di stimolo e allentamento monetario, come il Qe e non di contrazione monetaria come l’aumento dei tassi che la Yellen vorrebbe operare entro fine anno. Questo andamento ci dice una cosa, chiarissima: l’economia Usa non è forte abbastanza per sopportare nemmeno un aumento di un quarto di punto. Inoltre, noterete che non solo i netti cali nell’Eoci sono coincidenti con un indebolimento dell’attività economica, ma anche con un calo dei prezzi degli assets. 

Quarto segnale, gli investitori professionali e istituzionali hanno abbandonato l’approccio “Buy & Hold”, ovvero acquista e detieni a bilancio. A confermarlo, a mio avviso, ci ha pensato un recente report di Ubs. Eccone le parti principali: «Non c’è nulla di buono in generale, siamo in un ambiente economico e finanziario dove nulla è buono. A un certo punto, si disconnetterà e lo farà in maniera molto aggressiva, con ripercussioni significative e contro le quali sarà difficile sia prepararsi che operare un hedging efficace. Non possiamo più prendere nulla per garantito. Stiamo vivendo una sfida attraverso uno scenario da “cigno nero” ogni mese, ogni settimana, ogni giorno. Stiamo cercando di capire in quale scenario ciò che abbiamo di fronte e un’opportunità e quale invece non lo è, con potenziali perdite a corredo». 

Quinto segnale, una possibile crisi di liquidità nel credito. Come ci mostra l’ultimo grafico, frutto dell’ultimo studio compiuto dagli analisti di Ubs, Ramin Nakisa, Stephen Caprio e Matthew Mish, i mutual fund ibridi e gli Etf oggi come oggi detengono una componente molto ampia di bond ed equities. Basti dire che Microsoft ha l’allocazione in dollari maggior per i fondi ibridi con 7,4 miliardi stipati in portafogli mixati di mutual fund, seguita da JP Morgan con 6,3 miliardi e Verizon con 5,8 miliardi. Anche se uno scenario da carneficina sul mercato obbligazionario che forzi i mutual funds a vendere i loro titoli azionari e i Treasuries che hanno in detenzione è lungi dall’essere all’orizzonte, resta comunque un’ipotesi da non tralasciare, né sottovalutare. 

Così concludono il loro studio gli analisti: «Crediamo che ci sarebbe bisogno di uno shock sistemico per innescare un problema di liquidità nel credito, ovvero un ulteriore calo del prezzo del petrolio, un altro rally del dollaro e un’altra sorpresa negativa relativa alla crescita nei mercati emergenti. Anche se questo è uno scenario di tail risk, riteniamo che sia di un tipo che non possa essere ignorato». Poi non dite che non vi avevo messo in guardia per tempo.

 

 







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