SPY FINANZA/ Il buco nero della Borsa cinese fra bolle e debiti sommersi

- Mauro Bottarelli

Il governo cinese ha di fatto creato un'economia basata sul rischio finanziario e ora sta cercando di correre ai ripari attraverso l'allentamento monetario. Ma cosa accadrà? MAURO BOTTARELLI

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Ieri la Cina ha comunicato ufficialmente la revisione al ribasso del Pil del 2014, passato dal 7,4% al 7,3%, la lettura più bassa degli ultimi 22 anni. Ora, al netto che un dato del genere rimane lunare sia per gli Usa che per l’anemica Ue, lo stesso va ridimensionato, visto che alcuni indicatori macro dell’attività industriale, non ultimi i consumi elettrici, hanno portato molti centri studi a operare simulazioni di tracciatura del Pil reale che sono nella banda di oscillazione del 4,5%-5%. Sempre tanto ma per noi, non per la media cinese. Visto, soprattutto, che il Paese sembra nel pieno di una trasformazione epocale da impostazione industriale e di export a una di servizi e consumi interni, di fatto non per una volontà economica precisa ma perché ormai si è costruito di tutto e ovunque: insomma, sovra-offerta.

Vi offro solo un dato per mettere in prospettiva la situazione: nei soli tre anni dal 2011 al 2013, la Cina ha utilizzato 6,6 giga-tonnellate di cemento, quando gli Usa ne hanno utilizzate 4,4 tra il 1901 e il 2000! Un’enorme colata che ora si è trasformata in palazzi vuoti, città fantasma e autostrade verso il nulla lasciate a metà. Attenzione, però, perché i guai della Borsa cinese e questi dati macro rischiano di non dare il giusto peso al pericolo nascosto nel sistema finanziario cinese che potrebbe far saltare il banco, se l’operazione di deleverage controllato che il governo sta tentando di porre in atto garantendo liquidità e stimolo per sgonfiare la bolla non funzionasse: il debito fuori bilancio. In un Paese dove un’azienda che costruisce ombrelli di plastica non solo è quotata in Borsa ma ha guadagnato in un anno, prima della correzione, il 2700%, è ovvio che di storture e distorsioni ce ne sono parecchie. Ora, in un mondo in cui se la Cina supporta la sua economia, pone le basi di una “svalutazione competitiva” ma dove se la Bce stampa 1,1 triliardi di euro opera “stimolo”, tutta può essere visto attraverso lenti e chiavi di lettura differenti. Una cosa è certa: in Cina, il 40% del rischio di credito è fuori dai bilanci, mascherato in prodotti di gestione del risparmio che sono delle potenziali bombe atomiche garantite per legge dai governi locali e dalle loro normative sul finanziamento. Insomma, la questione ha una triplice implicazione: la sostenibilità sul lungo termine del debito locale, la gestione governativa delle sofferenze bancarie e la diffusione di prodotti finanziari che fanno sembrare le cartolarizzazioni dei mutui subprime dei plain-vanilla da consigliare a pensionati in cerca di investimenti senza rischio.

La Cina vive infatti su un binomio pericoloso: il modello di crescita basato sugli investimenti ha sì portato l’economia a crescere velocemente ma, altrettanto velocemente, è salito lo stock di debito legato a quei progetti. Il tutto, un contesto di effetti collaterali come la sovra-capacità nel settore industriale, come abbiamo visto prima, il deterioramento della qualità degli assets e la perdita di spinta della crescita. E cosa ha garantito il perpetuarsi, anzi l’istituzionalizzazione, di questo modello?

I governi locali cinesi, i quali in teoria non potrebbero emettere debito ma negli anni hanno aggirato le legislazione creando entità separate, i cosiddetti “Local government financing vehicles”, per finanziarsi, soprattutto attraverso i canali del sistema bancario ombra. Stando a dati di un’audizione ufficiale del 2014, il debito locale totale aveva raggiunto in Cina i 17,9 triliardi di yuan (3 triliardi di dollari) a metà del 2013, il corrispettivo del 38% del Pil. Un dato che include sia il debito di cui i governi locali sono direttamente responsabili (circa 10,8 truliardi di yuan), che le garanzie. E nonostante il governo centrale dallo scorso anno abbia cominciato a permettere emissioni di debito da parte delle autorità locali, portando un minimo di trasparenza, il sistema burocratico elefantiaco cinese permette ancora mille scappatoie che nessuna riforma calata dall’alto può riuscire a debellare del tutto.

In Cina ci sono infatti cinque livelli di governo, contro la media di tre della gran parte delle nazioni e questo rende logisticamente molto difficile far combaciare gli introiti fiscali con le spese, incoraggiando di fatto il protezionismo regionale. A capo di questo sistema, con un ruolo chiave di intermediazione, ci sono state le banche, le quali oggi sono particolarmente vulnerabili al rischio di credito deteriorato, basti vedere le loro performance nell’indice CSI-300. In Cina, infatti, le aziende per finanziarsi sono quasi totalmente dipendenti dalle banche e non dal mercato, ovvero dalle emissioni obbligazionarie, tanto che i prestiti dei quattro principali istituti (Bank of China, China Construction Bank, Industrial and Commercial Bank of China e Agricultural Bank of China) sono più che raddoppiati negli ultimi sette anni e hanno raggiunto il controvalore del 26% del Pil nei primi sei mesi di quest’anno. E sottotraccia i danni cominciano a vedersi, perché se la ratio ufficiale di sofferenze è ancora bassa al 1,4-1,8%, stando a dati del primo semestre del 2015, la loro crescita nominale è molto più significativa e rapida, tanto più che in Cina è abitudine delle banche maggiori di operare roll-over dei prestiti verso le aziende strategiche quando sono a controllo statale. Ovviamente, questi prestiti non figurano a bilancio come sofferenze. E anche il tradizionale ruolo di supporto dello Stato verso il sistema bancario sta perdendo di impatto.

Nel 1998, ad esempio, il governo diede vita all’emissione di bond speciali per la ricapitalizzazione delle quattro banche principali ma l’aumento a dismisura dei bilanci di quegli istituti sta depotenziando l’intervento della mano pubblica, visto che i prestiti bancari sono saliti al 130% delle riserve valutarie cinesi nel 2014, dall’80% del 2006. E, tanto per non farci mancare nulla, c’è la questione del sistema bancario ombra nel suo complesso, visto che solo in agosto dieci compagnie di trust e un fund manager hanno chiesto un salvataggio di Stato nelle provincia di Hebei, dopo numerosi casi di default già occorsi lo scorso anno.

Insomma, il governo cinese ha creato un’economia basata sul rischio finanziario e ora sta cercando di ristrutturare quel debito attraverso l’allentamento monetario. Ma questo a cosa porta? Lo abbiamo già visto la scorsa settimana ma ora abbiamo dati freschi: la Cina non sta stampando nuova moneta dal nulla come la Fed per difendere la valutazione dello yuan, sta mettendo mano alle riserve valutarie, un qualcosa che ha implicazioni dirette per moltissimi componenti del mercato, per la liquidità globale e per la politica monetaria stessa degli Usa. E i mercati stanno cominciando a innervosirsi, perché si chiedono quanto davvero la Cina stia mettendo in campo a livello di liquidazione di assets Usa e per quanto ancora andrà avanti.

Proprio ieri sono arrivati dati ufficiali da Pechino, dai quali scopriamo che nel solo mese di agosto la Banca del popolo ha liquidato Treasuries Usa per un controvalore di 94 miliardi di dollari ma Goldman Sachs ha immediatamente reso noto che, stando a suoi calcoli, il valore reale sarebbe di 115 miliardi di dollari. Qualsiasi sia la cifra, fa paura. Deve cominciare a farla, perché se dopo aver perso il riciclo di biglietti verdi nel sistema finanziario dal surplus di export dei Paesi produttori di petrolio, gli Usa vedessero liquidare anche i loro assets – soprattutto, il loro debito – detenuti dal loro primo creditore, dove andranno a finire i rendimenti su quella carta? E, soprattutto, chi la comprerà, se non la Fed costretta a un QE4? Inoltre, se la PBOC continua a liquidare a questa velocità e con questi volumi, dovrà tagliare pesantemente i requisiti di riserva per la banche – le quali sono già oggi nelle condizioni che vi ho appena descritto – e dar vita a operazioni di finanziamento repo a sette giorni per miliardi e miliardi, affinché sia garantita liquidità al mercato e si evitino dei grippaggi. Inoltre, tocca sempre ricordare come la Cina non sia l’unica nazione impegnata in una liquidazione di assets Usa: se per caso gli altri mercati emergenti seguiranno l’esempio di Pechino e si metterà mano in maniera combinata al totale di 7,5 triliardi di dollari di riserve degli emergenti, la gran parte in Treasuries Usa, cosa succederà? Anche perché viviamo in un mondo di totale illiquidità del mercato dei titoli di Stato statunitensi e con le banche centrali che, grazie alle manovre di stimolo, già detengono oltre il 30% dei titoli decennali equivalenti (la Banca centrale giapponese arriverà al 60% entro il 2018)? L’off-setting sui rendimenti sarà garantito dall’ennesima grande rotazione da titoli azionari a bonds? E cosa accadrà agli indici equities in quel caso, a meno di un QE4 della Fed?

Chiudo con un’ultima considerazione. Molti analisti cinesi hanno detto chiaramente che l’intenzione della Banca del popolo è svalutare lo yuan fino a 7 contro il dollaro entro la fine dell’anno, per arrivare a 8 entro la fine del 2016 (per capirci, ieri dopo che la Banca centrale ha operato la mossa a 4 giorni più grande degli ultimi 5 anni, si è arrivati a 6,3584). Si tratta, in quest’ultimo caso, di una svalutazione del 20% sul biglietto verde che dovrebbe garantire supporto all’export cinese, visto che i modelli ci dicono come ogni svalutazione del 10% porti con sé un aumento di 10 punti base della crescita delle esportazioni. Ma l’effetto collaterale, quale sarebbe? Ce lo dice questo grafico:

Una svalutazione di un altro 25% del prezzo delle materie prime, già ai minimi storici del ciclo e nuove ondate di shock per il sistema finanziario globale. La Fed, a conti fatti, non può permetterlo. E dovrà, per forza, agire di conseguenza.





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