SPY FINANZA/ La “benzina” che aiuta il crollo delle borse

- Mauro Bottarelli

Prima o poi, dice MAURO BOTTARELLI, la bolla cinese scoppierà, bisogna vedere se in modo controllato o meno. Per questo i mercati sono in attesa delle mosse di Pechino

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Venerdì scorso l’indice Shanghai Composite ha chiuso in rialzo dell’1,97%, facendo dimenticare per un attimo al mondo il dramma del -7% in soli venti minuti di contrattazioni di giovedì e la sospensione delle stesse. Cos’ha permesso quel rimbalzo? Due cose: primo, l’intervento del National Team, ovvero gli acquisti del fondo statale a supporto dei corsi. Secondo, il fatto che prima di aprire le contrattazioni la Banca centrale abbia svalutato di pochissimo lo yuan rispetto a quanto ci si attendeva. Parliamoci chiaro, quello cinese non è un mercato, ma una bolla istituzionalizzata, visto che quando si viaggia su multipli di utile per azione di 63x si fa riferimento al mondo della psichiatria e non della finanza. Prima o poi, la bolla scoppierà, bisogna vedere se in modo controllato o meno.

Di fatto, in molti provano a limitare l’impatto cinese sulla crescita globale, avanzando argomenti come quello per cui l’intera Cina pesa come il 7% dell’economia Usa. Vero, se si parla di economia, ma la cosa cambia se si tratta di mercati finanziari, visto che questi sono talmente correlati da portarci alla dinamica illustrata nel grafico a fondo pagina, ovvero un immediato impatto delle performance equities cinesi su quelle Usa. Come vedete, dal 2014 gli indici del Dragone sono andati in parabola ascendente grazie alla leva, ma non è la prima volta che questo accade e i precedenti hanno lasciato un prezzo molto salato da pagare.

Insomma, il rischio è come sempre quello del contagio, visto che i flussi in uscita dai mercati vanno a correlarsi. Per mettere in prospettiva la questione, lo scorso anno il margin debt in Cina ha raggiunto i 264 miliardi di dollari, un livello molto maggiore dei 500 miliardi di quello americano una volta che si aggiusta il dato al volume e al market cap dei due mercati. Detto questo, io continuo a pensarla alla mia maniera: ovvero, nel giudicare il caso Cina si guarda il dito e non la Luna. Il problema, infatti, non è la Borsa che crolla, quella è una conseguenza, bensì il fatto che Pechino sta avvicinandosi a grandi passi a una crisi valutaria legata alla svalutazione dello yuan e questo nonostante i continui interventi della Banca centrale per difendere il tasso di cambio.

A dicembre sono state bruciate sei volte le riserve record utilizzate nel precedente blitz sulla valuta, qualcosa come 120 miliardi di dollari: cosa ci dice questo? Che gli outflows di capitali dalla Cina ormai hanno preso dimensioni sistemiche e proporzioni bibliche. Insomma, lentamente, ma sempre meno, la situazione sta andando fuori controllo. Cosa fa paura ai mercati globali? Non Shanghai, ma il fatto che la Cina possa, prima o poi, dover abbandonare la sua difesa dello yuan, inviando al mondo un’ondata di deflazione devastante che annullerebbe in un solo colpo tutti gli effetti di stimolo messi in campo da Bce, Fed e Bank of Japan. Il rischio più immediato, invece, è quello di una reazione a catena in Asia, dove i Paesi emergenti stanno già pagando il prezzo alla fine del ciclo delle commodities e potrebbero precipitare in una crisi sistemica sullo stile di quella del 1998.

Non è un caso che l’instabilità cinese abbia portato la scorsa settimana il Brent ai minimi da 11 anni, in area 32 dollari al barile, mentre i timori legati alla svalutazione giovedì hanno fatto bruciare 635 miliardi di capitalizzazione in pochi minuti di caos a Shanghai. Uniamo a questo quadro le voci legate alla fine del bando alle vendite per i grandi investitori imposto lo scorso anno e i dati PMI di manifattura e servizi sotto quota 50, ovvero in contrazione, e il gioco del panico è fatto. Non a caso, i regolatori hanno dovuto mantenere e prolungare quel bando, il quale permette di vendere solo fino all’1% del flottante totale nel periodo di tempo di tre mesi: insomma, praticamente un mercato rialzista su ordine statale.

E questa è la cosa grave: congelare le vendite significa ammettere di essere in trappola, significa dire al mondo che il mercato cinese resta in vita solo grazie alla mano dell’intervento statale e ai divieti. Certo, per ora il mondo finge di ignorarlo, ma senza il sostegno della Fed per quanto potrà permettersi di farlo? Di più, una larghissima percentuale di azioni è in mano a entità statali e non tradano nemmeno più: restano congelate, nei bilanci e sul mercato. Una follia assoluta.

C’è poi la svalutazione, ovvero il fallimento della politica di sostegno dello yuan, costata alla Banca centrale cinese qualcosa come 140 miliardi di dollari il mese scorso sui mercati valutari esteri: il problema è che glispread sui contratti yuan offshore stanno salendo, sintomo che i traders si attendono che il peggio debba ancora arrivare. Ma la Cina ha davvero bisogno di svalutare? Ha davvero bisogno di una valuta più debole quando ha circa 600 miliardi di surplus di conto corrente? Serve davvero quella mossa per stabilizzare la crescita e stimolare l’export, quando di fatto si sta già esportando solo deflazione attraverso il diluvio di extra-produzione che si sta riversando a livello globale sui mercati? Oltretutto, le riserve cinesi sono scese da 4 triliardi di dollari agli attuali 3,3 triliardi, non lontanissimo da quei 2,6 triliardi ritenuti livello prudenziale dal Fmi, visti gli 1,2 triliardi di liabilities denominate in dollari. E visto a che ritmo si stanno bruciando riserve per difendere lo yuan, si parla di mesi e non più di anni.

Il problema è che se anche Pechino volesse tentare l’azzardo di un blitz valutario in grande stile, bruciare riserve porta a contrazione creditizia, il cosiddetto credit crunch, ovvero un qualcosa che può esacerbare le dinamiche ribassiste dell’economia reale. La speranza è che Pechino non voglia tentare di bypassare il problema tagliando i requisiti di riserva per le banche, ovvero passare dal 18% al 5% come durante la grande crisi bancaria del 1998: in questo modo si libererebbe nel sistema liquidità per 3 triliardi di dollari, di fatto un’enorme iniezione di stimolo per l’economia, ma si indebolirebbe la valuta, accelerando ed esacerbando le fughe di capitali. A quel punto, Pechino sarebbe in trappola.

Il problema è che nessuno al mondo può avere un conto capitale aperto, un tasso di cambio gestito e una politica di sovranità monetaria: almeno una delle tre variabili va sacrificata, soprattutto ora che la Cina sembra disinteressata a politiche di contrazione valutaria e, anzi, vuole tenere i tassi interbancari al minino possibile. Inoltre, Pechino ha visto la percentuale di incidenza dell’export sul Pil calare dal 65% al 41% nell’ultima decade, quindi non c’è questa necessità stringente di svalutare per pompare le esportazioni al massimo: c’è però bisogno di stimolo interno affinché l’economia non vada in stallo, preparando il terreno al famoso e tanto temuto hard landing.

Pechino, insomma, deve fare una scelta e deve farla anche in fretta. Soprattutto alla luce degli ultimi dati arrivati da Shanghai, in base ai quali il +18% di aumento del credito in cui si è sostanziata l’ultima fiammata di stimolo ci dice chiaramente che Pechino non vuole flettere la sua bolla da 27 triliardi legata ai prestiti. Con le ratio di debito che stanno andando alle stelle, la Cina sta aumentando il suo grado di leverage a livello assolutamente insostenibile già sul medio termine. Insomma, quando leggete o parlate di Cina, date importanza alla Borsa, ma solo per quella che realmente ha: è il problema sottostante, ovvero il debito enorme, a dare ossigeno a tutti gli incendi che Pechino fa divampare sui mercati globali. E prima o poi quell’argomento non potrà più essere derubricato, ma andrà affrontato: quello sarà il vero punto di svolta, la nascita di una nuova Cina e una nuova economia cinese post-commerciale. Un qualcosa di storico che richiederà, però, un alto prezzo da pagare. 





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