SPY FINANZA/ Così la speculazione “muove” il prezzo del petrolio

- Mauro Bottarelli

Il prezzo del petrolio si è allontanato dai minimi di qualche settimana fa. Per MAURO BOTTARELLI, tuttavia, non ci sono ragioni per un rialzo duraturo delle quotazioni

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Chi mi ha insegnato a capire l’economia, mi ha sempre detto che sono i dettagli macro apparentemente meno eclatatanti quelli da seguire con maggior attenzione. E ieri uno di questi si è palesato in maniera chiara: il credito al consumo, ovvero l’indebitamento per acquisti, negli Usa a febbraio è cresciuto solo di 10,5 miliardi, contro le attese di 17 miliardi, la lettura più bassa da marzo 2013. Di più, su basi percentuali, data la netta revisione al ribasso del dato di dicembre, la crescita degli ultimi tre mesi è la più debole dal settembre 2011. L’esatto contrario di quanto vorrebbe la Fed, visto che il Pil Usa si basa al 70% sui consumi e se l’americano medio non è più in grado (o non ha più voglia) di indebitarsi come un matto per comprare questo e quell’altro, si rischia di grippare del tutto la macchina. 

Per la risalita del prezzo del petrolio, vale la stessa logica: attenti a leggere bene il dato e, soprattutto, le componenti sottostanti di questi aumenti. In molti, infatti, fanno notare come siano passati sei mesi da quando Goldman Sachs aveva messo in guardia dalla possibilità che il petrolio crollasse a 20 dollari al barile, di fatto sottointendendo che la banca d’affari potrebbe avere preso un’altra colossale cantonata. A oggi, il greggio – che in gennaio era crollato a livelli di prezzo che non toccava da tredici anni, intorno a 27 dollari – vale infatti più del doppio dei 20 dollari indicati da Goldman. È stato toccato il mitologico bottom e ora si risale? 

Non credo, a meno di uno scenario di guerra aperta in Medio Oriente o dell’avanzata netta dell’Isis in Libia nelle aree dei giacimenti. Già la scorsa primavera c’era stata un’illusione di ripresa dei prezzi, ma giova ricordare che sul mercato del petrolio l’eccesso di offerta è tutt’altro che scomparso e comunque solo nei Paesi Ocse ci sono oltre 3 miliardi di barili di scorte, tra greggio e prodotti raffinati. Volete davvero sapere in quanto petrolio stiamo annegando? Per l’Europa uno degli indicatori principali è il cosiddetto Ara, ovvero le scorte di distillati stoccate nell’area di Amsterdam, Rotterdam e Anversa. Bene, scontando l’inverno tutt’altro che rigido e quindi la bassa domanda per il riscaldamento e la produzione in continua crescita, il primo grafico a fondo pagina ci mostra come i livelli in milioni di barili siano attualmente molti più alti della media a 5 anni. Bene, quando il dato Ara è alto, il prezzo del petrolio è destinato a scendere. Inoltre, il secondo grafico ci mostra come gli alti livelli delle scorte abbiano spedito i prezzi dei futures per i distillati Ara pesantemente in area contango, ovvero quando il prezzo per la consegna futura è più alto di quello della consegna a breve, sintomo che conviene mantenere il petrolio stoccato in attesa di rialzo, sia sui cargo che nelle strutture galleggianti o anche nei treni. 

Inoltre, la nuova tecnologia utilizzata nelle raffinerie russe, storicamente grandi fornitrici di distillati verso l’Europa, permette di produrre carburanti a basso contenuti di solfuri, quelli più ampiamente utilizzati in Europa occidentale e quindi l’export di Mosca è grandemente aumentato. Stesso discorso vale per le raffinerie saudite e indiane. A oggi, i livelli di scorte di distillati in area Ara sono di più di 26 milioni di barili, più di 7 milioni di barili superiore alla media a 5 anni. 

Chi si dice favorevole a un possibile aumento dei prezzi scomoda in questi giorni il calo ai minimi storici degli impianti shale-oil statunitensi attivi, tanto che la produzione Usa – benché tuttora alta, a 9,1 milioni di barili al giorno – è ai minimi da novembre 2014. 

È anche vero che l’Opec stessa ha cambiato atteggiamento: c’è un accordo di massima con la Russia e altri Paesi per congelare l’output sui livelli di gennaio, ma scordatevi assolutamente che si possa arrivare a un taglio produttivo. Per un paio di motivi, pratici e non teorici: l’Iran ha cominciato a tradurre in realtà le ambizioni di un ritorno sul mercato, visto che?domenica Teheran ha inviato in Europa il primo carico di greggio dal 2012, quando erano entrate in vigore le sanzioni. A riceverlo è stato una raffineria spagnola, ma presto – quasi sicuramente – anche gli altri clienti, tra cui l’Italia, torneranno a rifornirsi dagli iraniani. E se i sauditi continuano a inviare petrolio scontato per il mercato europeo nei porti polacchi, nel tentativo di rubare quote di mercato ai produttori russi, proprio ieri è arrivata un’altra doccia fredda per chi pensa che sia ora di scommettere sul rialzo dell’oro nero. 

Anas al-Saleh, ministro del petrolio del Kuwait, ha infatti dichiarato quanto segue alla Reuters: «Se non ci sarà un accordo organico in sede Opec, io andrò avanti a tutta forza. Ogni barile prodotto verrà venduto». Questo calcolando che l’Iran ha bisogno di altri 9-12 mesi per arrivare al regime di piena produzione pre-embargo e che, quindi, non si potrà parlare di accordo su un taglio della produzione prima del 2017 inoltrato, a meno che uno dei Paesi Opec o la Russia non vada prima in default. E attenzione, perché il Kuwait pesa e non poco. Il piccolo Paese del Golfo, infatti, attualmente produce 3 milioni di barili di greggio al giorno, casualmente proprio il livello di sovrafornitura a livello globale giornaliero del mercato: i siti di stoccaggio PADD1, 2 e 3 sono già pieni, ma il petrolio in eccesso viene stoccato su navi, lungo le pipeline, sui treni o re-esportato in Europa. È guerra, tra gli algoritmi dei brokers che vanno lunghi sul petrolio di carta, quello che non viene mai consegnato, e i produttori, quelli che invece sono pronti anche a riempire di petrolio tutte le piscine del proprio Paese pur di non cedere quote di mercato. 

Non a caso, proprio la Goldman Sachs, giubilata per la previsione sbagliata, l’altra notte ha pubblicato un report a firma di Jeff Currie nel quale l’attuale rally delle materie prime veniva definito «non sostenibile», invitando nel contempo a vendere petrolio. Per capire poi cosa sta accadendo davvero, basta leggere la stampa specializzata del settore: la mancanza di siti di stoccaggio e l’aumento della politica di contango sta facendo impazzire il mercato delle strutture di contenimento in mare e, peggio ancora, sta facendo variare le tratte delle navi, allungandole di proposito per tenere il petrolio il più possibile fuori dal mercato. 

È guerra, perché quando il contango sale, molti partecipanti di mercato comprano distillati sullo spot market, noleggiano vascelli, stoccano il prodotto e attendono tempi migliori in futuro – a livello di valutazioni – per vendere a profitto. Attualmente sono tantissimi i vascelli al largo della costa di Gibilterra e dell’area Ara che stoccano petrolio, restando fermi pur al netto dei costi di noleggio e mantenimento. Mentre questa mappa ci mostra come molti cargo da Medio Oriente e India oggi utilizzino la tratta più lunga, passando dal Capo di Agulhas, per arrivare in Europa invece che passare dal Canale di Suez in Egitto: quest’ultimo viaggio si completa in 15-20 giorni, la tratta utilizzata attualmente per guadagnare tempo e “nascondere” il petrolio fra i 30 e i 40 giorni. Follia figlia della sovraproduzione da mal-investment garantita dal denaro a costo zero di Fed e altre banche centrali, tutto qui. 

 

C’è poi, come anticipato, il cancro delle finanza speculativa, quella che con il petrolio fa soltanto soldi scommettendo sulle fluttuazioni dei prezzi, ma che del prodotto finito e reale si disinteressa: basterebbe mettere una quota fissa di obbligo di consegna sui contratti futures e voglio vedere quanti hedge funds sarebbero pronti a noleggiare magazzini, pur di speculare. Ma questo sarebbe un mondo normale, un mondo giusto, mentre quello in cui viviamo vive solo di tendenze e ora questo mood è diventato, quasi per scommessa contrarian di massa verso la realtà macro, rialzista. E non solo sul petrolio, su tutte le materie prime: dall’oro al ferro. 

Peccato che se da un lato si cerca soltanto profitto attraverso gli short squeeze, ovvero quando c’è un eccesso di posizioni al ribasso, basta un refolo da un Paese produttore per innescare un aumento e quindi una corsa alla chiusura forzata di posizioni che genera effetto moltiplicatore alla salita dei pezzi; dall’altro si vuole nascondere, mimetizzandolo tra le altre commodities, il rally dell’oro, questo sì giustificato in quanto bene rifugio, soprattutto in un mondo dove le Banche centrali puntano sempre di più alla limitazione del contante e dove l’oro fisico è pochissimo rispetto alle scommesse cartacee dei soliti speculatori al Cme di Chicago. Come si sa i rialzi alimentano ulteriori rialzi, a maggior ragione su piazze sempre più frequentate da fondi algoritmici, per cui i fondamentali non hanno alcun valore. 

Le posizioni nette lunghe sul Brent sono ai massimi da quando l’Ice ha cominciato a diffondere le statistiche nel 2011:?nella settimana conclusasi l’1?marzo si è arrivati a 342.460 contratti, tra futures e opzioni, con un aumento di 21.171. Un’analoga migrazione verso scommesse rialziste è in atto anche al Nymex, dove il Wti ieri si è spinto fino a superare 38 dollari al barile:?le posizioni nette lunghe in questo caso sono solo ai massimi da novembre, ma in una settimana quelle short si sono ridotte del 15%, il ritmo più veloce da aprile 2015. Insomma, parliamoci chiaro: non è un rally da fondamentale, è un rally da copertura obbligata delle posizioni short autoalimentante, è solo speculazione da algoritmo. 

Ieri, poi, è giunto il dato del crollo dell’export cinese, -25% a febbraio e leggendo bene i valori sottostanti dovrebbe far riflettere il -3,7% del dato di vendita di veicoli, uno dei driver della domanda di carburanti e quindi di petrolio. Con un mercato come quello cinese in netto rallentamento, non solo di consumi ma anche a livello industriale, è compatibile un aumento dei prezzi del petrolio che non sia riconducibile a speculazione pura? Ve lo dico io, no. 





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