SPY FINANZA/ Crisi dei mercati, il filo che unisce Wall Street e la Corea del Nord

- Mauro Bottarelli

I mercati continuano a soffrire e, secondo MAURO BOTTARELLI, non è certo per timori inflazionistici. All'orizzonte c'è una crisi da scongiurare a ogni costo

Coronavirus disperato imprenditore (LaPresse)

Dunque, vediamo un po’ di fare chiarezza, per quanto possibile non potendo contare sulla sfera di cristallo. O, quantomeno, un punto. Premetto che mentre scrivo, causa gli impegni spiacevoli di questo periodo, la Borsa di Milano ha aperto le contrattazioni da mezz’ora circa e già a -1,44%, un bel tonfo che segue quello ancora più fragoroso di Wall Street di venerdì scorso e del Nikkei che ha Tokyo proprio ieri mattina aveva confermato il contagio della paura, archiviando la seduta con un netto -2,5%. Alle 14, unica revisione permessami di questo articolo, Piazza Affari era però già tornata a -1,4%, dopo un tentativo di recupero a metà mattina e i futures di Wall Street parlavano la lingua di un nuovo, profondo rosso. Se, quindi, a fine giornata gli indici avranno cambiato senso di marcia per qualche ragione oggettiva – vedi l’intervento di Mario Draghi al Parlamento europeo tenutosi nel tardo pomeriggio, anche alla luce del Whatever it takes che già salvò l’Europa una volta e dei continui richiami a una politica di sostegno più incisiva, se la realtà macro la rendesse necessaria -, la discrasia con questo incipit dipende dal non aver potuto intervenire ancora in corso d’opera. 

Non cambia, però, il dato di fatto: venerdì scorso il cosiddetto nosedive del Dow Jones non segnalava una pausa per rifiatare dal rally, una presa di beneficio, ma un cambio di direzione. Il quale potrà nascondersi, mimetizzarsi, dare vita a morphing da qui ai prossimi mesi, ma che ha interrotto una dinamica che si credeva infinita. E che nulla c’entra con Donald Trump e la sua politica economica, se non nel carattere di detonatore ufficiale di quello che ancora i grandi media non hanno il coraggio di chiamare con il suo nome: nuova crisi in fermentazione nei tini dell’irresponsabilità – politica in testa, vedi le azioni del Fmi a fronte degli allarmi della Bri- e dell’azzardo morale, alla faccia dell’aver recepito la lezione durissima impartitaci dal 2007. Come spiegano infatti le ultime ore di tensione sui mercati quelli che ci capiscono, i cosiddetti esperti o tecnici? 

Il miglioramento delle dinamiche salariali Usa pubblicate con i dati macro della scorsa settimana, un qualcosa che impatterebbe al rialzo sulle prospettiva inflazionistiche della Fed e che potrebbe portare la Banca centrale statunitense a spingere maggiormente sul rialzo dei tassi, arrivando addirittura a quattro ritocchi all’insù per quest’anno. Insomma, con Janet Yellen accasatasi con lussuoso e munifico stipendio al prestigioso Brookings Institute, ecco che il mandato di Jerome Powell alla guida della Fed dovrebbe essere impostato fin da subito al pieno sostegno della narrativa favolistica del boom dell’economia Usa sotto la guida di Donald Trump: tutte le dinamiche macro sono così forti da permettere, anzi quasi rendere necessaria, un’accelerazione nella stretta monetaria dopo una decina d’anni di espansionismo creditizio declinato in modo e tempo di Operation Twist, Zirp e tre cicli di Qe e orchestrato prima da Ben Bernanke e poi dalla già citata Janet Yellen, in nome di un’altra ripresa da applauso globale, quella di Barack Obama, tanto incensata dalla sinistra liberal di casa nostra per anni in nome di Keynes e della rinnovata primazia statale in economia. Il mitico intervento pubblico torna in auge. 

Insomma, la paura è legata primariamente al più classico dei paradossi in tempi di Banche centrali imperanti: l’economia va troppo bene e troppo in fretta rispetto al mercato, il quale sconta quindi scostamenti che non aveva messo in preventivo e da cui non si è cautelato. Il fatto che i Treasuries Usa abbiano cominciato l’anno con il rendimento al 2,4% e venerdì abbiano sfiorato il 2,9%, quindi, ha operato un principio di tantrum a livello globale, visto che la scorsa settimana l’indice Msci Asia Pacific ha perso il 3,4%, peggior risultato dal gennaio 2016, indice di un contagio globale, ma, soprattutto, sugli emergenti del Far East, i veri canarini nella miniera globali. E questo cosa ci ricorda? 

Un nefasto precedente, ovvero il cosiddetto Taper tantrum innescato dalla decisione di Ben Bernanke di chiudere prima del tempo e con troppo poca gradualità – stando al mercato – il Qe2, scelta che inviò uno scossone devastante nei mercati emergenti asiatici, particolarmente sensibili alle valutazioni del dollaro e ai tassi Usa, essendo pesantemente indebitati in biglietti verdi e quindi costretti a sopportare un servizio di quel debito in nettissimo e poco gestibile aumento. Siamo a un deja vù? La questione, a mio avviso, è più seria e complicata. Ma, soprattutto, più sistemica e strettamente correlata a quella che sapete essere la mia idea di gestione in divenire della prossima, inevitabile crisi finanziaria: il capro espiatorio Donald Trump con le sue politiche, rese effettive – almeno negli annunci – dalla Fed, opererà da detonatore per garantire alle Banche centrali, tutte e non solo quella Usa, di tornare rapidamente – addirittura in modalità emergenziale – a una politica di totale accomodamento ed espansione monetaria, probabilmente talmente spinta da mostrarci in Giappone i prodromi addirittura dell’helicopter money, la fase terminale della pianificazione economico e finanziaria attraverso Stati onnivori che smettono di operare massicciamente sui mercati e si trasformano essi stessi in mercati a se stanti, autoregolati e totalmente oligarchici nei confronti dei dati macro, gli stessi – leggi salari e occupazione Usa – che oggi vengono ritenuti responsabili dei tonfi delle Borse. 

Ma è davvero la realtà quella di un’economia reale in crescita sincronizzata e sostenuta a livello globale, come ripetono a spron battuto le Banche centrali e i loro governatori, tale da aver colto con la guardia abbassata tutti i principali attori di mercato, anche i più scafati? Ora, guardate questi grafici e non spaventatevi, anche se sulle prime (e magari anche sulle seconde e terze) vi paiono chiari come una conversazione in aramaico: qui dentro c’è il senso reale di quanto sta accadendo. Ma anche molto di più: ci sono le responsabilità, plastiche, di regolatori, attori di mercato, politici e manovratori di vario genere per quanto saremo costretti a pagare come conto al peggior atto di criminalità finanziaria mai perpetrato al mondo, un qualcosa che trasforma il 2007 in una passeggiata nel parco il buon Bernie Madoff in un filantropo. 

 

Prendete il primo grafico, tanto per farvi capire quanto sia patetica la scusa ufficiale legata ai timori inflazionistici e sui tassi come causa del panico in Borsa: venerdì scorso, il mitologico 1% più ricco del pianeta, quello che anno dopo anno accumula profitti alla faccia del 99%, ha visto la sua ricchezza di 73,9 miliardi di dollari in un solo giorno di contrattazioni, evaporati nel tracollo di Wall Street. Certo, nessuno di loro dovrà comunque andare alla Caritas per il pranzo, ma il solo Warren Buffett, uno che di solito non sbaglia una mossa, ha visto il suo portafoglio alleggerito di 3,3 miliardi di dollari. Nessuno, nemmeno la smart money, si attendeva quell’ondata di vendite così repentina e alluvionale: e volete dirmi che la colpa è legata a una scelta elefantiaca nei tempi come quella della decisione sui tassi di interesse della Fed a livello annuale, ovvero per l’intero 2018, fra tre o quattro rialzi a fronte di un timido aumento delle dinamiche salariali e occupazionali negli Stati Uniti? Tanto più che le prime, dati Fed e del Bureau of Labor Statistics alla mano, sono state stagnanti per almeno 9 trimestri consecutivi: basta una prima, solitaria ancorché netta inversione per far crollare le fondamenta della cosiddetta ripresa globale sincronizzata e sostenuta? Diciamo che allora erano un po’ fragili, come sostengo da sempre. 

E il dato occupazionale? Di fatto è record storico da anni, ormai, da quando ho cominciato a farvi notare che grazie a Barack Obama e alle politiche della sua amministrazione si registravano sì tassi occupazionali da anni Settanta, ma con assunzioni di massa solo fra over-50 disperati nel raccattare contributi pensionistici, assicurazione sanitaria e qualche benefit e per lavori con salari minimi e garanzie pressoché zero (leggi camerieri e baristi), mentre la partecipazione alla forza lavoro del Paese languiva pericolosamente ai minimi storici e la manifattura, spina dorsale dell’economia sana statunitense, vedeva il dato dei nuovi assunti in perenne emorragia. Perché allora si vende al mondo una narrativa falsa? Per il semplice fatto che, altrimenti, occorrerebbe ammettere ciò che vi dico da sempre, ciò che la ripresa non c’è mai stata nei termini che sono stati contrabbandati da governi, regolatori e media e che ora che il livello di indebitamento globale ha raggiunto un grado di insostenibilità strutturale (guardate solo il grafico sul margin debt alla Borsa di New York e quelli che correlano andamento dello Standard&Poor’s 500 e bilancio della Fed, rispettivamente secondo, terzo e quarto) tale che, senza scomodare i debiti pubblici e privati di Stati e aziende e la fine delle politiche di Qe ormai sistematicamente irreversibile, ecco che tutto si sfalda come neve al sole, da un momento all’altro, a cascata. 

Una cascata tale da cogliere con la guardia abbassata anche uno come Warren Buffett, non certo un ragioniere cui hanno appena venduto un portafoglio di investimento ripieno di immondizia ma travestito da innocuo piano assicurativo sulla vita (occhio a chi vi telefona o vi fa strane proposte alla filiale bancaria, con garanzia Inps, in tal senso in questo periodo). Certo, nessuno può escludere tempi medio lunghi per la sedimentazione e la strutturazione della nuova ondata di crisi, qualcuno – magari lo stesso Buffett – farà ancora soldi a palate, comprando sui minimi dopo una raffica di cali e la stessa Borsa di Milano tornerà a correre, magari proprio dopo l’intervento di ieri sera di Mario Draghi a Bruxelles. Tutto possibile, ma guardate i grafici che ritengo principali, ovvero quelli relativi alla divergenza fra equities e rendimenti obbligazionari Usa (gli ultimi due), il seme malato della crisi sta tutto lì, nella promessa fallace e criminale di Stati che potevano ingannare il mercato in nome di Banche centrali iper-attive e che ora pagano la rotazione della paura di un margin debt talmente esorbitante che, come le merci della sovra-prodzione cinese, deve andare ad allocarsi da qualche parte ma poi scappa per timore sui tassi legato alla falsa narrativa macro. 

Il mondo intero – hedge fund, banche d’affari, casalinghe e quant’altro – è lungo sulle Borse e mai così short sulle obbligazioni, per questo l’idea di un aumento dei tassi di interesse fa paura. Ma già da tempo i tassi reali sono differenti da quelli ufficiali e già da tempo si sa che la compressione degli spread è unicamente artificiale e dovuta a un intervento pianificatorio che, o diviene strutturale e perenne stile Cina pre-2007 o prima o poi ci consegnerà un costo da capogiro, quando tornerà il mercato – quello sano – a dettare regole, prezzi e tempi. È tardi per sperare di evitare un impatto frontale, si potrà sterzare con nuovo e più potente Qe, ma non si farà altro che calciare in avanti – per l’ennesima volta – una barattolo divenuto ormai un silos e con gambe sempre più scheletriche e malferme. 

Albert Einstein diceva che in caso di Terza guerra mondiale, quella successiva sarebbe stata combattuta con le pietre. Bene, io non so dirvi con esattezza la magnitudo di ciò che ci aspetta, ma so che se non verrà compiuto un vero e proprio miracolo – inteso come mossa senza precedenti e destinata a finire nei libri di storia, più che di economia -, il mondo non sarà più lo stesso. E il 2007 sarà ricordato con tenera nostalgia come il tempo in cui i mercati ed economie ancora funzionavano. Cosa può salvarci? Una guerra, vera e non commerciale questa volta. Che potrebbe sacrificare, questa volta sì, la Corea del Nord sull’altare dei mercati finanziari globali: si sa, Usa e Cina si abbaiano, ma di fronte a certe prospettive le alleanze nascono più facilmente. E se c’è una cosa che fa salire i rendimenti obbligazionari, sono le vendite. Quelle grosse, però, da elefante. Tipo quella che il primo detentore di debito Usa potrebbe aver fatto, d’accordo con chi a Washington conta davvero, per innescare una paura preventiva che poi verrà nascosta e adombrata, per l’ennesima volta, da un bell’allarme nucleare. 

Se Pyongyang, dopo la tregua olimpica, tornerà a essere il pericolo numero uno, allora sapremo che la crisi stava partendo davvero. È il mercato, bellezza!





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