SPY FINANZA/ Petrolio e borse, i veri protagonisti dello scontro sulla Siria

- Mauro Bottarelli

La situazione siriana è specchio degli interessi locali e globali di nazioni con mire piuttosto chiare. Un grosso risiko che coinvolge anche la finanza. MAURO BOTTARELLI

guerra_nave_aereo_lapresse_2017 LaPresse

Poverini, fanno quasi pena. Si sono messi in tre per colpire praticamente il nulla, facendosi intercettare 71 missili sul 103 senza che nemmeno Damasco dovesse impiegare la moderna anti-aerea russa (è bastata quella sovietica, senza scomodare gli S-300) e, mano a mano che emergono i particolari del raid, stupisce che non abbiano atteso il via libera ufficiale e in carta bollata del Cremlino prima di attaccare. La Russia non solo è stata avvisata, ma i tre Caballeros erano così determinati nel farla pagare a Putin attraverso il suo proxy siriano da avvisare prima il Cremlino, garantendo che le aree in cui sono presenti militari russi non erano minimamente interessate dai bombardamenti: il passo successivo era organizzare una riffa per far decidere ai russi cosa colpire direttamente, ma potrebbe essere un’idea da tenere da conto per la prossima pantomima. Accidente, che invincibile armada! E la cosa peggiore è che, almeno formalmente, si prendono anche sul serio.

E cosa è accaduto sabato pomeriggio, a raid concluso? Il buon Donald, con uno dei suoi ormai proverbiali tweet, ha rivendicato il successo della missione! Qualcuno, per favore, lo avvisi che i suoi missili dovrebbero colpire il bersaglio e non farsi centrare da quelli siriani, esplodendo in volo. Non è tiro al piattello, Donny e nemmeno goriziana! Emmanuel Macron pare stia girando da 48 ore per casa con la mano destra infilata dentro il lato sinistro della giacca, alla Napoleone, inseguito dalla moglie con in mano una manciata di pillole per sedarne i bellicosi ardori, mentre Theresa May sta emulando Fantozzi e Filini prima della Coppa Cobram, facendo l’accento russo in telefonate anonime a casa di Boris Johnson.

Si ride per non piangere, ma da ridere c’è poco. Perché al netto della colossale figura da cioccolatai in cui si è sostanziato l’attacco anglo-franco-americano di sabato notte, per capire in che diavolo di mondo viviamo occorre accantonare per un attimo la pratica e cambiare argomento: sappiamo tutto in tempo reale, ci profilano non appena scriviamo la password sul pc, ci rubano i dati per cercare di manipolare il nostro voto, abbiamo sul telefono app per qualsiasi cosa, i satelliti ci contano quanti capelli abbiamo in testa mentre facciamo la doccia, ma ancora non sappiamo se Khalifa Haftar è morto oppure sta fumandosi una Gauloises in un bistrot parigino alla faccia nostra! E non stiamo parlando del signor Mario Rossi, quindi a qualcuno potrebbe e dovrebbe pungere vaghezza di sapere come stanno davvero le cose: è vivo? Morto? Metà e metà?

L’ultima vulgata disponibile vorrebbe che stesse meglio e si apprestasse non solo a tornare in Libia entro domani, ma, addirittura, pronto a guidare un’importante operazione sul terreno. Eppure, nemmeno una foto. Un collegamento Skype, un tweet o un post su Facebook per dimostrare che è ancora vivo. Per ore intere, durante le quali si sono accavallate informazioni di ogni genere. Non si tratterà dell’ennesimo sgambetto francese all’Italia sul caso Libia, un argomento tremendamente importante per entrambi e un capitolo aperto almeno dal 2011? Oltretutto, con un aggravante in ambito Nato, visto che Macron ha fatto di tutto per accreditare il suo interventismo e la sua fedeltà atlantica presso gli Usa, mentre Gentiloni ha recitato il ruolo dell’acrobata per non irritare Washington, ma rimarcando a ogni piè sospinto che nessun attacco sia partito da basi poste su suolo italiano. Come al solito, il piede in due scarpe. Ma ci sta, il momento politico è tale che si impone melina. Quantomeno per salvare le apparenze, essendo la sostanza svanita nel nulla dalla crisi di Sigonella, ormai.

Parigi, facendo circolare la notizia della morte di Haftar e lasciando nell’indeterminatezza la stessa per ore e ore, ha voluto lanciare un messaggio in codice – ma nemmeno troppo – a Roma? Una cosa è certa: appresa l’indiscrezione e preso atto del giallo che la contornava, la fronte di Marco Minniti penso si sia imperlata di sudore gelido al pensiero di Bengasi nel caos e della Cirenaica in fiamme per la successione. Poi, sicuramente i nostri servizi di intelligence avranno scoperto qualcosa di più e immagino rassicurato Viminale e Palazzo Chigi, ma se davvero l’uomo forte della Libia che guarda all’Egitto di al-Sisi e a Mosca dovesse sparire dalla circolazione senza un erede, i primi a pagare il prezzo di un nuovo 2011 saremmo noi. Con Macron pronto a travestirsi da novello Sarkozy e capitalizzare non solo il caos, ma, soprattutto, la leccata di piedi agli Usa sostanziatasi nell’intervento diretto di sabato notte.

Quante domande, tutte senza risposta. Poi ci sono alcune certezze, ad esempio il fatto che il raid abbia avuto come scopo principale quello di coprire le evidenze del presunto attacco chimico a Douma, proprio a poche ore dall’arrivo degli ispettori internazionali, messi in questo modo in condizione di “non nuocere” alle bugie occidentali in merito. La Russia ha lasciato fare, per il semplice fatto che la conferenza stampa di venerdì pomeriggio del ministro della Difesa – seguita alle accuse dirette del ministro degli Esteri, Serghei Lavrov, contro i servizi britannici, accusati di aver avuto un ruolo diretto nella messinscena – aveva già inviato un segnale chiaro: basta con i giochini, perché noi – a differenza di Macron e Dipartimento di Stato – le prove le abbiamo davvero e finora abbiamo mostrato solo l’antipasto. Come se non bastasse, sabato un laboratorio d’analisi indipendente svizzero ha certificato che la sostanza che ha avvelenato l’ex spia russa Skripal e la figlia a Salisbury non era fabbricata in Russia, ma si trattava della tossina BZ, in dotazione a Usa, Gran Bretagna e altri paesi Nato. Certo, i tg e i quotidiani di ieri non hanno aperto con questa notizia – a mio avviso degna di nota -, ma la cosa non deve stupire: la guerra, ontologicamente, non può permettersi il lusso della verità. La guerra, come diceva George Orwell, non si scatena per vincerla, ma per farla proseguire: la guerra è prima di tutto uno stato mentale. E una cortina fumogena.

Ad esempio, perché dovrebbe essere un laboratorio svizzero a scagionare Mosca? Forse, un po’ per questo, ovvero uno strano trend che spiegherebbe a livello geopolitico il corso ribassista del franco svizzero e, soprattutto, il tonfo da -25% del titolo azionario della Banca centrale svizzera, la quale come saprete è un equity quotata, ma soprattutto un hedge fund mascherato, visto il portafoglio miliardario di titoli azionari Usa detenuti, Apple in testa. E chi starebbe vendendo franchi e shortando di fatto le equity statunitensi più sensibili attraverso il proxy di detenzione svizzero? Qualcuno parla di quegli stessi oligarchi russi cui Washington ha voluto inviare un salato avvertimento con le nuove sanzioni ad personam: voi ci fate perdere miliardi? No, se vogliamo, facciamo esplodere in maniera disordinata Wall Street, in primis la già traballante bolla tech attraverso il soggetto estero che ne detiene il maggior numero di titoli. Guerra. Senza bisogno di missili.

Ma i raid come quelli di sabato, per quanto fallimentari e inutili nella sostanza, come confermato in maniera lucidissima dal generale Tricarico in più di un talk-show, servono soprattutto a manipolare e catturare l’attenzione dell’opinione pubblica, nascondendo altro. Ad esempio, questo: la Cina, di colpo, pare aver deciso che è ora di rilassare le condizioni con cui si può operare sui futures nei propri mercati equities, di fatto spalancando le porte al ritorno in grande stile di investitori munifici come hedge fund e grossi fondi. Dopo l’esplosione della bolla retail del 2015, infatti, i regolatori di Pechino posero decisi limiti all’utilizzo di prodotti derivati, arrivando a un taglio delle posizioni del 98%, come mostra chiaramente il grafico. Ora, invece, si cambia registro.

Perché? Perché un mercato dove il cielo sembra sempre blu, visto che il governo può imporre il divieto di vendita ai soggetti operanti o intervenire direttamente in soccorso del mercato con il consorzio di banche a controllo statale conosciuto come “Special team”, sente il bisogno di aprire al rischio? Forse per questo, ovvero la necessità di trovare una scusa per far ripartire in grande stile l’impulso creditizio che finora ha salvato il mondo, tamponando i vuoti di liquidità lasciati dalla Fed e che presto verranno aumentati di volume dal tapering della Bce rispetto agli acquisti obbligazionari. Siccome, poi, la vulgata corrente vuole che un’economia sia sana – o percepita in massa come tale – solo se il mercato azionario è scintillante, ecco che alla sostanza va a unirsi anche la forma. E Xi Jinping, proprio mentre parla di riforma finanziaria, cambio del modello economico e consumi interni, può così continuare a fare ciò che ha fatto finora: inondare il mercato di quella liquidità necessaria a non far grippare l’ingranaggio della roulette globale.

A parte addetti ai lavori e feticisti come me, di fronte a quanto accaduti in Siria, chi leggerà questa notizia? Di più, chi si accorgerà della sua stessa esistenza fra i lanci di Bloomberg? E a proposito di controllo statale e manipolazione dei mercati, cosa dire di questo, l’ultima conferma giunta dal Giappone relativamente alla morte del concetto di libero mercato riguardo il settore obbligazionario nipponico, il secondo al mondo per controvalore e il primo a livello sovrano? Non c’è più trading che non sia quello della Bank of Japan, tutto è in mano alla Banca centrale e, come per la Cina, al consorzio di dealers fedeli che interviene a salvare il Nikkei, le rare volte che sbanda.

Una notizia del genere, in tempi normali, avrebbe schiantato i mercati, poiché significa la distruzione del concetto stesso di mark-to-market e price discovery, oggi invece è accolta come la salvezza, il nuovo orizzonte a cui tendere a livello globale. Il rialzo dei tassi della Fed? Tranquilli, non farà danni reali. La Bce? Anche lei non lascerà governi e aziende europee e bocca asciutta troppo in fretta. E lo sa anche la Bundesbank, basti prendere atto dell’atteggiamento stranamente cerchiobottista di Angela Merkel rispetto al raid siriano degli alleati: al vostro fianco fino alla fine ma dalla Germania, né un aereo, né un missile contro Vladimir Putin e gli investimenti iraniani con le aziende del made in Germany. Un atteggiamento spregevole e mercantilista? Perché, gli altri, i difensori dell’umanità che vogliono punire Assad per vendicare i bambini di Douma, pensate che si muovano per gli ideali? Guardate questi grafici, sono relativi ai numeri di Aramco, il gigante petrolifero statale saudita, nazionalizzato nel 1978 e da allora divenuto un mostro non solo di produzione di greggio ma anche di profitti e dividendi.

Sul finire dello scorso anno, Ryad aveva annunciato la quotazione di parte del suo gioielli, facendo scattare salive degne del cane di Pavlov in mezzo mondo: poi, il rinvio e il cambio di strategia. Aramco, almeno per ora, resta sotto il controllo del governo saudita. E chi nelle ultime settimane si è imbarcato in un tour diplomatico mondiale, accolto con tutti gli onori del caso dagli Usa all’Europa fino in Asia? Il principe saudita Mohammed bin Salman, plenipotenziario di Ryad dopo il mezzo golpe di inizio anno. E quando Bloomberg ha reso noti i numeri da record riportati nella prima tabella, quelli apparentemente ufficiali e reali e che fino a pochi giorni fa erano a conoscenza solo del governo saudita e del consiglio di amministrazione dell’azienda? Venerdì scorso, alla vigilia del raid sulla Siria, Paese retto dall’odiato Assad, ma, soprattutto, sempre più sotto l’influenza del nemico storico, l’Iran.

E dopo aver incontrato l’élite della Silicon Valley, Donald Trump e soprattutto il potente cognate, Jared Kushner, qual è stata l’ultima tappa del tour del principe, meta in cui è stato riverito come un semidio? La Francia, con Emmanuel Macron in versione scendiletto. E al netto del fiasco operativo e politico, chi ha “gradito” più di tutti la mossa occidentale, il “segnale” rappresentato dai raid di sabato notte? Jihadisti, Israele e sauditi. E quali sono i nemici comuni di questi soggetti? Russia e Iran. E cosa accomuna questi soggetti? Il petrolio e il suo ruolo geopolitico in Medio Oriente. Ricordatevi, solo in Italia un risiko simile viene ridotto a scontro da bar fra posizioni contrastanti da massimalismo in politica estera, altrove sanno leggere un po’ di più fra le righe. Ricordatevi che non solo la realtà non è mai come appare, ma anche e soprattutto che la prima vittima di guerra e profitto è la verità.

La riprova? La reazione iraniana all’attacco, da molti attribuito a jet israeliani, ma ricondotto a un “incidente” nella versione ufficiale di Hezbollah, contro un capo di addestramento di Teheran vicino ad Aleppo nella notte fra sabato e domenica. Fra 15 giorni, Donald Trump sarà chiamato a decidere riguardo il futuro dell’accordo sul nucleare iraniano: passa tutto da lì, quello è lo snodo. E la quota pubblica di Aramco agognata da mezzo mondo potrebbe andare al miglior offerente, ovvero a chi sarà pronto ad arrecare più danno possibile al regime degli ayatollah. Con tutto ciò che ne consegue, però, visto l’avvertimento già partito da Teheran, riguardo i rischi di destabilizzazione dell’intera area dopo il raid alleato sulla Siria.

Siamo ai titoli di coda di un mondo che non c’è più: il problema è capire quale arriverà ora, chi guiderà gli equilibri. Temo anime nere e cavalieri di ventura.





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