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Home » Sanremo » SANREMO 2020/ Il “passo indietro” di Amadeus in un festival di tradizione

  • Sanremo

SANREMO 2020/ Il “passo indietro” di Amadeus in un festival di tradizione

Emanuele Rauco
Pubblicato 5 Febbraio 2020 - Aggiornato alle ore 08:52
sanremo 2021

Amadeus sul palco di Sanremo 2020 (Lapresse)

Dopo la prima serata, Sanremo 2020 appare un festival di tradizione con tre o quattro mostrine di impegno sociale e civile: possiamo accontentarci?

Le polemiche, i passi indietro, le canzoni del passato che dichiarano sessismo e violenza più o meno consapevoli, le dieci donne a fare da contorno a una gara quasi solo maschile. Poi alla prova dei fatti, Sanremo 2020 è difficilmente distinguibile da una qualsiasi edizione di stampo classico, di scuola Baudo/Bongiorno, nel bene e nel male.


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La 70a edizione del festival della canzone italiana si apre con premesse peggiori del solito, non per suoi errori forse, ma perché la società intorno è diversa, cambia, forse si sveglia come dicono in America quando parlano di woke culture. E sul palco Amadeus e socie – nel caso della prima serata Diletta Leotta e Rula Jebreal – cercano di accorgersi di questo risveglio, cercano di smorzare le polemiche e di fare in modo che le istanze delle donne possano emergere.


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Forse è solo apparenza: la prima delle due compagne di palco compare sul palco dell’Ariston dopo più di tre quarti d’ora ed entrambe si limitano ad affiancare, fare da spalle in gag come sempre scritte maluccio, oppure fare due monologhi. Quello di Jebreal più drammatico, in cui il libro nero degli uomini che maltrattano, violentano e uccidono le donne è messo a confronto con il libro bianco delle parole che gli uomini hanno scritto per le donne (Battiato, De Gregori, ecc.); quello di Leotta più leggero, su come la bellezza possa essere un peso (ma meglio averla eh!) e sull’importanza della nonna. Quindi niente che possa scuotere davvero: la donna è vittima o angelo del focolare.


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Questa prima serata è quantomeno coerente con quanto mostrato da Amadeus negli spot: mescolare stili e modi dal canone della conduzione e spettacolo sanremese. Un po’ di Vianello nell’impostazione, un po’ di Baudo nella concezione televisiva da varietà classico, un po’ di Bongiorno nelle interazioni: basterebbe pensare all’ingresso sul palco tra luci roboanti per avere un’idea di un programma in cui più grande è e meglio è, invece la sua conduzione è paradossalmente un passo indietro a chi gli sta intorno (a differenza dell’onnipresente Baglioni), soprattutto a Fiorello che apre la serata, irrompe, ruba la scena come sempre fa, prendendosi tutti gli onori e nessun onere della conduzione, e Tiziano Ferro, filo rosso canoro che tra versioni di classici del Festival (Volare e Almeno tu nell’universo) e canzoni proprie prova a imporsi come canone, anche lui, non sempre riuscendoci.

La proposta delle canzoni in gara prosegue sulla scia dell’eclettismo discografico degli ultimi tempi: fenomeni da talent, giovani tra indie e rap per la quota “alternativa”, cantautori più raffinati e grandi classici della musica leggera per il pubblico più maturo. E in questo eclettismo si spazia, qualitativamente, dal pezzo di Morgan e Bugo, con un grande attacco di tastiera e un bel mix tra melodia accattivante, personalità sghemba e anti-convenzionale degli interpreti, musica trascinante, a quello di Alberto Urso, finto tenore pop dai suoni arcaici e brutti ma dal faccino che piace a figlie e mamme, una delle cose peggiori mai partorite dalla fucina di Maria De Filippi. In mezzo le cose migliori sono sembrate il pezzo dance di Elodie, scritto da Mahmood, prodotto e cantato con classe; la sfrontatezza di Achille Lauro, vero showman della serata, che si spoglia e si mostra in quasi canotta con paillettes, tatuaggi in mostra e andamento strafottente in quel rock scazzato che 40 anni fa portò Vasco Rossi al successo; il crossover (in ritardissimo, ma meglio di nulla) di Anastasio, con chitarra elettrica e barre rappate, a dare ritmo e tensione; Raphael Gualazzi che anziché traccheggiare jazzando come Cammariere o Mario Biondi, aggredisce il pianoforte e l’umorismo divertendo il pubblico.

Sorprende la carica rockeggiante di Rita Pavone, che dimostra che si può invecchiare bene, o perlomeno cercando di non mummificarsi, a differenza di quanto si prova con Al Bano e Romina che replicano la reunion e il medley di qualche anno fa e portano anche un temibile nuovo pezzo, scritto da Malgioglio. Speriamo che i Ricchi e poveri al completo sappiano fare di meglio (contando poi sul talento di Massimo Ranieri che canterà assieme a Ferro).

Per ora abbiamo un festival di tradizione con tre o quattro mostrine di impegno sociale e civile: possiamo accontentarci?


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