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Home » Cinema e Tv » Film e Cinema » IL MIO NOME È VENDETTA/ Il film che supera i suoi limiti (e i pregiudizi)

  • Film e Cinema
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IL MIO NOME È VENDETTA/ Il film che supera i suoi limiti (e i pregiudizi)

Emanuele Rauco
Pubblicato 12 Dicembre 2022
Una scena del film

Una scena del film

Il film di Cosimo Gomez con Alessandro Gassmann gioca le carte giuste per vincere la sua partita e farsi notare, superando più di un pregiudizio

Le operazioni produttive, specie in un campo che per l’Italia è ancora in fase di esplorazione come i film pensati direttamente per lo streaming, hanno bisogno di tempo, di prove, di aggiustamenti: se La belva, action movie di Ludovico Di Martino, non era riuscito ad attrarre il pubblico di Netflix perché troppo sbilanciato all’imitazione per avere qualcosa di interessante da far vedere, Il mio nome è vendetta risulta essere il miglior esordio italiano di sempre sulla piattaforma e uno dei migliori in assoluto tra quelli non in inglese, con 32,5 milioni di ore di visualizzazione nella prima settimana.


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Cosimo Gomez (regista e sceneggiatore), Colorado Film e gli sceneggiatori Sandrone Dazieri e Andrea Nobile hanno evidentemente lavorato con perizia, prendendo modelli chiari e vincenti – Io vi troverò, Mio figlio – dandogli un’impronta più riconoscibile, lavorando meglio su luoghi, contesto e un’atmosfera italiana che non facesse a pugni con l’impianto internazionale.


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La storia è quella di Santo (Alessandro Gassmann), un padre di famiglia che si trova a dover proteggere la figlia (Ginevra Franesconi), dopo la morte della moglie, dal passato di ‘ndranghetista che aveva sepolto: tra i boschi del Trentino e Milano, l’uomo inseguirà la vendetta contro la famiglia criminale che gli ha rovinato la vita e insegnerà alla ragazza a difendersi dal futuro.

Quello che in più di un’occasione ha reso vani i tentativi nostrani di approcciarsi al genere in chiave internazionale è la mancanza di credibilità nelle scene d’azione e negli stunt, di attori che non riuscivano a integrarsi in un sistema filmico su cui nessuno li aveva mai tarati, di un’atmosfera che sembrava un gioco parodistico e imitativo più che una riproposizione; grazie invece all’apporto della fotografia di Vittorio Omodei Zorini, del montaggio di Alessio Doglione, delle scenografie di Maurizio Sabatini e di Emiliano Novelli, coordinatore degli stunt e regista delle scene d’azione, Il mio nome è vendetta supera i suoi limiti.


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Ovvero, la prevedibilità di certi snodi o la banalità della trama, che però oggettivamente in cose del genere contano meno (per chi scrive, molto meno) del dinamismo della regia, dell’efficacia dell’approccio, dell’attendibilità delle scelte tecniche e della costruzione di un mondo narrativo locale ma esportabile, replicabile (il finale accenna coerentemente alla possibilità di seguiti ed espansioni) e vicino al sentire del pubblico di partenza.

Soprattutto, la sceneggiatura sembra una questione di lana caprina rispetto al lavoro che Gassmann, Francesconi e il resto del cast fanno sui loro ruoli, sulla loro fisicità, sulla violenza dura e sporca che Gomez mette in scena. Lungi dall’essere un film che cambierà il cinema di genere, Il mio nome è vendetta è altresì un’opera che ha giocato le carte giuste per vincere la sua partita e farsi notare (se non apprezzare anche all’estero), superando più di un pregiudizio.

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Tags: Alessandro Gassman

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