Gaza, l’Apocalisse e la scintilla

Esodo “volontario”: dietro il programma di Israele si nasconde una strategia di sterminio dei palestinesi. Ma ci sono ancora scintille di speranza

La mattina delle Palme, la Striscia di Gaza si è trovata priva di un altro ospedale, bombardato e necessariamente evacuato, una delle ultime strutture sanitarie almeno in parte funzionanti. A Gaza è l’Apocalisse. Che si consuma nel sostanziale disinteresse di tutti, e segnatamente delle nazioni europee per quello che ci riguarda più da vicino – classi dirigenti in testa –, per le sorti dei due milioni di poveretti assediati, bombardati, ammazzati di proiettili, di fame, di malattie. E quelli che vanno in giro a spaccare vetrine e a scontrarsi con la polizia contro Israele e i suoi “complici” americani, europei e italiani, non aiutano la pace e nemmeno la causa palestinese.



Dalla fine del cessate il fuoco si va avanzi a cento morti al giorno, prevalentemente civili, moltissimi bambini. Cinquantamila e passa morti ufficiali dall’inizio la guerra. Ma poi altri muoiono per le conseguenze del conflitto, e il conto aumenta.

Un’area di 360 kmq, più o meno come il lago di Garda, questa è Gaza, devastata e invivibile. Case distrutte, ospedali distrutti, scuole distrutte. Ordigni esplosi anche sui campi profughi. Non arriva acqua potabile, gli impianti di desalinizzazione sono stati messi fuori uso, non arrivano gli aiuti umanitari, non arrivano medicine, non arrivano alimenti, non arriva il carburante.



L’esercito israeliano riprende aree e corridoi, per dilatare e occupare zone cuscinetto e per sezionare il territorio in aree anguste sempre meno vivibili. Non bastasse, questa guerra, che sarebbe meglio chiamare carneficina, è anche molto scientifica: sofisticati sistemi di intelligenza artificiale individuano gli obiettivi, cioè i combattenti di Hamas, e agiscono di conseguenza, con una previsione di effetti collaterali, cioè uccisione di innocenti, di uno a venti. Per far fuori uno di Hamas, è possibile che se ne facciano fuori altri venti. Non è la Torah che lo dice: è l’algoritmo. E si sa, all’algoritmo non si comanda.



Gaza è dal 1948 un pezzo del Monopoli dove i giocatori sono altri. Loro, i gazawi, erano i profughi, e profughi sono ancora 1,2 milioni degli abitanti attuali. Furono sotto l’Egitto fino al 1967, poi sotto gli israeliani dopo la guerra dei sei giorni, poi affidati al governo dell’Autorità palestinese, presto scalzata da Hamas, ma sempre con Israele che controllava confini terrestri, accessi marittimi, acque territoriali, spazio aereo e perfino l’anagrafe.

La questione palestinese, compreso l’assetto di Gaza, ha quasi ottant’anni ed è talmente complessa e incancrenita che non consente giudizi sommari tipo di qui la ragione, di là il torto. Ragioni e torti sono un intreccio a prova di qualsiasi manicheismo.

Gaza però è troppo. Ci sono due parole che per Netanyahu pronunciarle è sacrilegio antisemita e che invece non vanno escluse a priori. Una è deportazione, altra è genocidio. La deportazione, al di là delle trumpate, e dei progetti da Costa Azzurra del Medio Oriente, è impossibile: i poveretti nessuno li ha mai voluti e nessuno li vuole oggi. Ma il piano sarebbe un altro: “trasferimento volontario”. Come teorizzato peraltro apertamente dal falco ministro dell’Interno, Smotrich. Volontario è un’ipocrisia. La realtà è che andando avanti così l’assedio, molta gente si troverà costretta ad accettare di andarsene.

L’altra parola è genocidio. Papa Francesco, nel suo ultimo libro, affaccia la proposta che organismi internazionali indipendenti valutino se esista o meno la fattispecie, ai sensi del diritto internazionale. Si è preso una replica molto dura dalle autorità di Tel Aviv. Per quelli come Netanyahu, i discendenti di chi ha subito ottant’anni fa gli orrori inenarrabili della Shoah, hanno forse per ciò stesso licenza di distruggere un popolo?

E i Paesi occidentali? Gli Usa, prima con Biden e poi con Trump, vanno avanti e danno pieno appoggio in soldi e armi a Netanyahu. L’Europa traccheggia pilatescamente, annaspa, si gira dall’altra parte, e al massimo ti trovi una Kaja Kallas che va fin là ad “auspicare” una tregua, cosa che non fa nemmeno il solletico a nessuno.

Ad opporsi a Netanyahu e ad Hamas ci sono coraggiosi o sfiniti israeliani e palestinesi, che chiedono moderazione e pace, sfidando e subendo una repressione senza sconti.

In Israele ci sono pacifisti ex militari, ci sono decine di gruppi come i Combattenti per la pace, che piantano ulivi, aiutano i contadini, creano le “scuole di libertà”. Ci sono personalità come l’imprenditore israeliano Maoz Inon che ha fatto del turismo un’opportunità di crescita per tutti, anche i palestinesi. Ha fatto amicizia con il palestinese Aziz Abu Sarah, entrambi con familiari uccisi dai combattenti della guerra. I due, che sono stati anche ricevuti insieme dal Papa, hanno assunto iniziative insieme nel segno della riconciliazione. Ma poi ci sono decine e decine di persone e famiglie, dell’una e dell’altra nazionalità, che si rispettano e si aiutano, nonostante tutto.

Certo, una soluzione appare pressoché impossibile, perché la maggioranza dei palestinesi non vuole lo Stato di Israele e la metà degli israeliani non vuole uno Stato palestinese. Tuttavia, queste diverse esperienze di umanità e di impegno confortano il coraggio di usare la parola speranza.  La pronunciano molto autorevolmente personalità come il patriarca latino Pizzaballa (“abbiamo bisogno di un nuovo inizio in tutti gli ambiti della vita, del coraggio di guardare al futuro con speranza”) e il segretario di Stato vaticano, Parolin: “Le strade ci sono, non dobbiamo perdere la speranza, Dio governa la storia degli uomini”.

Gli uomini di quei movimenti e di quelle esperienze usano parole come “necessità di una riumanizzazione”, “fiducia”.  Dobbiamo – dovremmo – guardare, valorizzare, imparare, sostenere queste che sono scintille, né più né meno. Manifestare a favore loro. Sostenere la paziente ricerca della pace che comincia dal cuore di ciascuno.

Sì, sono solo scintille. Ma non prendiamo sottogamba quello che la vecchia saggezza meneghina prevede: “ona lughéra la po’ taccà on grand foeugh”, una scintilla può accendere un gran fuoco.

Certo non servo le curve degli ultras, che sostengono la volontà di una parte di far fuori l’altra. Non funzionano, ahimè, neanche i richiami ai valori e al diritto internazionale, di cui tutti si fanno un baffo e nessuno ha la forza di far rispettare. Ci resta la lughéra. Non è poco, se sappiamo valorizzarla.

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