A Roma il recente “Festival dell’umano tutto intero” organizzato dal network di associazioni “Ditelo sui tetti”. Al centro, una visione antropologica chiara
La particolarità inedita del nostro tempo, secondo la nota espressione di papa Francesco, consiste nel fatto che “la nostra non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca”. La definizione è stata generalmente colta come un’evidenza sulla quale è bastato aprire gli occhi: ci siamo tutti ritrovati in un mondo vorticosamente trasformato, sempre più disancorato da una storia condivisa, da legami significativi, da una trama esistenziale ricca di valore e di senso.
La società “liquida”, priva di relazioni durevoli, di stabilità, di progettualità e di futuro, sembra moltiplicare i disagi e le emergenze di soggetti con fragilità diverse, in un contesto culturale e istituzionale spesso supportato da logiche tese a scardinarne i princìpi di tutela della vita con l’introduzione di legislazioni che tradiscono una visione antropologica di segno contrario.
Come uscire da una desertificazione dell’umano non sempre appariscente, a volte persino nascosta in drammi taciuti, consumati in solitudine, destinati a lasciare ferite e cicatrici che forse si sarebbero potute prevenire?
Spesso la speranza appare difficile, fragile, illusoria. Come riscoprire e risvegliare le profonde aspirazioni del cuore, le sole che possono indurre a sperare, a sperare sempre? Questa domanda, sprigionata come un’urgenza vitale di verità, di giustizia e di bene, ha indicato una svolta possibile, ha suscitato energie nuove insieme alla possibilità, per tanti, di riconoscersi in un cammino significativo di cambiamento.
Così è accaduto con sorprendente evidenza, nei giorni scorsi, nel contesto del “Festival dell’umano tutto intero”, alla sua seconda edizione, realizzato a Roma il 17 e il 18 giugno. Due giorni ricchissimi di incontri, testimonianze, riflessioni affiorate da narrazioni reali di quanti considerano la speranza non solo come un messaggio da diffondere, ma come una prospettiva da incarnare nel vivo di tessuti problematici, di storie che il più delle volte trascurate ed emarginate nel proprio essere misterioso e infinito, in quell’“umano tutto intero” evocato nell’espressione di Karol Wojtyla.
“Fra vitalismo e nichilismo nel cambio d’epoca: i luoghi e le strade della speranza”: si è sviluppato così l’evento promosso dal Network “Ditelo sui tetti” (oltre cento associazioni), presieduto da Domenico Menorello. Si è così dipanato un percorso variegato: dalla tutela della vita fin dal concepimento al travaglio della morte da accompagnare con appropriate terapie palliative, dalla promozione della famiglia alle politiche di incentivo alla natalità e di affronto dell’emergenza educativa sempre più grave fino a considerare i diversi interessi che muovono l’agire umano, le nuove dinamiche di valorizzazione del lavoro, i problemi delle carceri, statalismo, sussidiarietà, la tragedia della guerra mondiale a pezzi.
Filo rosso fra temi e problemi, la volontà di ripartire, di giudicare, di ritrovare l’energia e il coraggio di una presenza nella società in grado di incontrare gli altri, di incontrare tutti, di riscoprire il gusto dell’unità e il vero gusto della speranza desiderabile e da tutti desiderata, motore dell’esistenza eppure facilmente riducibile all’illusione – così è stato suggerito dal filosofo Francesco Botturi – se non si mira alla grande speranza, secondo un orizzonte che dà senso anche alle piccole speranze.
Fra i relatori molti testimoni di un impegno quotidiano e assiduo, espressione di una mobilitazione che coinvolge la persona che in relazione e in unità con gli altri, con le vite e le storie degli altri, realizza una comunione di intenti e di azione.
Questa la dimensione, che ha visto convergere nel Festival decine e decine di relatori, dai filosofi ai medici ai giornalisti, dai sociologi agli economisti ai numerosi politici e figure istituzionali, dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano ai diversi ministri fra cui Roccella, Giorgetti, Valditara, senza trascurare la presenza di eminenti rappresentanti della gerarchia ecclesiale fra i quali il cardinale Zuppi e il cardinale Parolin.
Un tratto originale e dirimente ha caratterizzato il clima del Festival, che ha trasmesso una forte percezione di unità di intenti e di idee, quasi che il ritrovarsi attorno a una proposta essenzialmente centrata su una visione antropologica chiara e motivata, abbia generato un riconoscimento innanzitutto sul piano umano e culturale, rafforzando la collaborazione fra le diverse associazioni e prospettando – fattore non privo di efficacia – una maggiore possibilità di incidere sulla mentalità e sul cambiamento d’epoca.
Del resto il cardinale Pietro Parolin, in riferimento al Concilio di Nicea che quest’anno celebra i 1700 anni e fu indetto per definire il tema dell’incarnazione del Verbo, ha messo in luce quanto l’affermazione di Cristo come vero uomo incida oggi sulla consapevolezza della nostra identità e della nostra considerazione dei cosiddetti valori cristiani. “È in Gesù che il mistero dell’uomo trova la sua verità ultima e il perfetto compimento ed è in Lui che noi possiamo rinvenire il parametro di ciò che è veramente, autenticamente umano… Dobbiamo tutti educarci a valorizzare sempre più ciò che è umano e quindi, specularmente, a denunciare ciò che non lo è, come dis-umano”.
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