Dopo 23 anni Moody's torna ad alzare il rating dell'Italia: un risultato importante per il Governo, che ne ha però altri da conseguire
Missione compiuta. Non solo l’Italia non indossa più la doppia maglia nera, cioè quella del debito e quella del deficit pubblico, ma per la prima vota in 23 anni viene addirittura promossa da tutte le agenzie di rating. Ciò vuol dire che Giancarlo Giorgetti può vendere i titoli di stato senza ansia da prestazione e Giorgia Meloni può far suonare le sue campane.
Moody’s, ultima in ordine di tempo, è stata anche la più benevola perché ha alzato di un gradino la valutazione da Baa3 a Baa2, con un outlook positivo. Un risultato del quale il Governo fa bene a gioire; farebbe ancor meglio se non si cullasse sugli allori e continuasse con una politica fiscale accorta e paziente.
È la prima delle missioni economiche da portare a termine, non l’unica anche se quella di maggior impatto mediatico e politico. Sarebbe un errore tuttavia considerarla di importanza solo formale, o snobbarla come fa l’opposizione. Il Paese con il secondo debito pubblico rispetto al Pil in Europa e il terzo al mondo, ha assoluto bisogno di tenere in equilibrio il dare e l’avere, le spese e gli incassi dello Stato. Ridurre quella montagna di debito è la missione più difficile, l’unica via maestra è la crescita dell’economia e qui le cose non vanno affatto bene.
La settimana chiusa con un brindisi si era aperta con una doccia fredda: le previsioni di autunno pubblicate lunedì dalla Commissione europea hanno corretto al ribasso l’andamento del Pil: +0,4% non +0,7% come stimato nel maggio scorso; la primavera e l’estate hanno registrato una netta frenata, con crescita attorno allo zero. Ancor più preoccupante è che la Commissione non vede roseo nemmeno nei prossimi due anni: mentre nell’insieme i Paesi europei avranno un rimbalzo già nel 2026, l’Italia si colloca al penultimo posto dopo l’Irlanda, nel 2027 invece sarà quella che crescerà meno.

La missione Pil, dunque, non è riuscita. Colpa soprattutto delle avverse condizioni internazionali, prima la stagnazione della Germania alla quale l’Italia è strettamente intrecciata, poi i dazi. Il calo dell’export è già evidente negli ultimi mesi. I tecnici di Bruxelles prevedono che, complici le tariffe imposte dagli Stati Uniti e le incertezze generalizzate, “le esportazioni di beni si contrarranno dello 0,6%”, mentre “le importazioni di beni e servizi aumenteranno considerevolmente.
Questo implica un indebitamento netto del Paese. Alla fine del 2025 il rapporto debito/Pil è previsto al 136,4%, per poi salire al 137,9% nel 2026 e ridursi al 137,2% nel 2027. Ciò rende ancor più necessaria una politica fiscale prudente, ma vuol anche dire che non ci sono margini per concedere sostegni consistenti alla domanda interna, sia ai consumi, sia agli investimenti.
Il risanamento delle finanze pubbliche rivela dunque il suo lato negativo? Sì se si pensa che la ripresa debba passare per il deficit spending, no se si punta su politiche dell’offerta che favoriscano gli investimenti privati. L’Ue scommette su un aumento della domanda per consumi spinta non da bonus e Superbonus che nel loro insieme hanno avuto un impatto negativo, ma dall’aumento dei salari in particolare nel settore privato. In questo modo i consumi delle famiglie potranno sostenere la domanda interna mentre quella per investimenti soffrirà per l’estinguersi del Pnrr.
Moody’s si dichiara particolarmente ottimista sul piano di ripresa e resilienza e ritiene che i 194,4 miliardi euro verranno spesi completamente, l’agenzia sottolinea la solidità dei fondamentali economici e i buoni bilanci delle imprese, a cominciare dalle banche che oggi vengono messe nel mirino dei partiti italiani di destra e di sinistra. La raccomandazione è che “in un contesto di stabilità politica e di continuità nelle politiche economiche, il Governo italiano continui nel percorso di consolidamento fiscale attraverso misure su entrate e spese”, ricordando che “il livello del debito pubblico resterà elevato e la sua sostenibilità tenderà a indebolirsi gradualmente, poiché i tassi d’interesse più alti degli ultimi anni si tradurranno in maggiori costi di rifinanziamento”.
Ecco dunque la missione che non si può fallire: guai se i risultati raggiunti negli ultimi due anni e soprattutto in questo 2025, venissero sperperati nel 2026, un anno elettorale perché precede la scadenza naturale della legislatura nella primavera del 2027. La lezione del passato mostra quella che viene chiamata la legge bronzea del ciclo elettorale: è quasi una regola che la spesa pubblica debordi a mano a mano che ci si avvicina alle urne.
Qualche segnale c’è già stato per le elezioni regionali, con la tendenza ad annunciare e concedere agevolazioni alla vigilia del voto (Marche e Umbria inserite nella Zona economica speciale) o regalie come quelle alla Campania (dalle mozzarelle ai coralli, dai vini dell’Irpinia ai presepi).
Avuta la grazia, gabbato lo santo come dice un vecchio proverbio? È il rischio più grande da evitare affinché l’Italia s’aggiudichi davvero la medaglia dell’affidabilità economica e politica.
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