Nel nord-est si registra un calo della fiducia nella Chiesa. Un dato importante che invita a più di una riflessione

«La Chiesa ha perso fiducia, ma può restare una guida morale». Così Francesco Moraglia, patriarca di Venezia, ha commentato i dati del recente rapporto Demos, che registrano una netta discesa della fiducia nella Chiesa cattolica nel Nord-Est italiano (36% in Veneto, 37% in Friuli Venezia Giulia, 34% in Trentino Alto Adige).



Le sue parole non suonano né difensive, né trionfalistiche. Dicono piuttosto il bisogno di un punto fermo, in un tempo in cui tutto si muove troppo in fretta. Eppure, se è vero che l’autorità morale della Chiesa ha ancora un significato per molti, resta aperta la domanda più radicale: che cosa genera oggi fiducia?



La fiducia non si eredita, non si impone, non si conserva con la memoria. È fragile, e nasce da una corrispondenza tra ciò che si dice e ciò che si vive. Le persone non cercano una morale più chiara, ma una testimonianza che abbia carne. Qualcosa o qualcuno che tenga insieme le parole e le mani, la dottrina e la strada, la fede e la compagnia.

Nel suo Introduzione al cristianesimo, Joseph Ratzinger scrive: «L’annuncio cristiano non si sostiene da solo. Ha bisogno di una figura viva che lo incarni e lo renda credibile». Quando quella figura scompare, quando l’esperienza si scollega dal Vangelo, la parola perde forza. Resta vera, ma non viene più seguita. Questo non significa che la Chiesa debba cambiare messaggio. Ma che è chiamata, oggi più che mai, a stare accanto. Non semplicemente ad “assistere” le fragilità, ma a condividerle. Senza temere di sembrare fuori posto. Senza pretendere subito risultati.



La storia ci insegna che non sempre la guida morale è stata rassicurante. I Padri della Chiesa lo sapevano bene. Gregorio di Nazianzo, in uno dei suoi discorsi più celebri, affermava: «Non siamo chiamati a spiegare la verità, ma a soffrire per essa». Non una sofferenza sterile, ma il peso del portare l’altro, del sostare nel tempo lento delle relazioni umane. Questo è ciò che oggi può restituire fiducia: la fedeltà concreta, discreta e quotidiana.

È qui che si gioca il passaggio delicato del nostro tempo. Dopo gli scandali, dopo le delusioni e le aspettative tradite, la Chiesa vive spesso un senso di cautela. Non vuole sbagliare, non vuole esporsi a fraintendimenti. E così, talvolta, resta in disparte. Ma il mondo non ha bisogno di una Chiesa trattenuta. Ha bisogno di una presenza affidabile, sobria, prossima.

Lo scrittore coreano Ko Un, poeta e monaco buddhista, ha scritto: «La verità non è una roccia, è un passo. Se non cammina con noi, non è la verità di oggi». Non basta aver detto cose giuste: bisogna aver camminato. È da lì che nasce la fiducia: dal passo compiuto insieme, dalla sosta non calcolata, dalla prossimità che non misura il tempo. Anche la letteratura occidentale più silenziosa sembra dircelo.

Christian Bobin, autore di nicchia ma molto amato in Francia, ha scritto: «L’essenziale si incontra solo restando. Non serve più parlare. Serve esserci». La Chiesa che vuole ancora dire qualcosa, oggi, non deve per forza gridare. Ma deve abitare. In modo reale. Continuo. Umano.

La dichiarazione del patriarca Moraglia va presa sul serio. Ma una guida morale, per essere ascoltata, ha bisogno di volti che accompagnano, non solo di voci che spiegano. Ha bisogno di uomini e donne che, nel piccolo, portano avanti una forma di affidabilità affettiva e spirituale. Perché chi cerca senso, oggi, non cerca una regola. Cerca una soglia. Qualcuno da cui ripartire.

La Chiesa può ancora essere quel luogo. Ma non lo sarà per ciò che afferma. Lo sarà per come resta. Non accanto alla verità, ma accanto all’uomo. Perché la guida che convince, oggi, è quella che cammina alla stessa altezza, senza vantaggi, senza garanzie, senza la pretesa di essere capita. Solo con il desiderio di non perdersi di vista.

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