Il pittore danese Vilhelm Hammershøi offre una interessante lettura dello spazio fisico come soglia capace di immettere nella trascendenza
La recente retrospettiva allestita a Rovigo e dedicata ad Hammershøi e i pittori del silenzio tra il Nord Europa e l’Italia ha offerto a un folto pubblico di visitatori i temi preferiti dall’artista danese (Copenaghen, 1864-1916) e dai suoi colleghi “del silenzio”: interni, ritratti e città morte.
Considerato a ragione uno dei protagonisti dell’arte europea tra fine Ottocento e inizio Novecento, Vilhelm Hammershøi – maestro indiscusso del gruppo – sosteneva che “a fargli scegliere un soggetto erano spesso le sue linee”: “sono le linee – soleva ripetere – la cosa che amo di più”, ciò che conferisce al dipinto “il suo carattere architettonico”.
Significativo, al riguardo, il dipinto Interno, Strandgade 30, datato 1902 e appartenente ad una collezione privata (Filadelfia).
Ecco infatti le linee, tanto amate dall’artista, costruire l’impalcatura sobria ed essenziale dell’opera: lo spazio in primo piano connotato da un arredo d’epoca scarno ma elegante, introduce lo spettatore – grazie alla prospettiva creata dallo stipite bianco aperto sull’uscio – in un secondo interno, il solo abitato da una presenza umana.
Un’ampia finestra collocata nella stanza più remota della casa lascia filtrare la fredda trasparenza della luce nordica che, penetrando nel vano di mezzo, arriva ad invaderne gli angoli più oscuri. Hammershøi ritrae una donna, intenta a rassettare il pavimento, la cui sagoma rimane, almeno in parte, celata. La postura del busto leggermente china suggerisce un’attitudine composta e misurata che, sostenuta dall’umiltà del gesto, trasmette una quiete interiore scevra da qualsivoglia affanno.
A rompere l’andamento ortogonale delle linee che sezionano ciascun ambiente, Hammershøi ha scelto di utilizzare da una parte il manico della ramazza impugnato dalla protagonista e dall’altra la parete di sbieco che, nel circoscrivere il perimetro di quello spazio, segna il confine tra l’ombra e la luce.
Ricorrono di frequente nella ricca produzione del pittore danese raffigurazioni di donne sole, spesso colte di spalle o di profilo, ma sempre immerse nel silenzio denso e palpabile di stanze spoglie e dai toni grigi.
Nel dipinto Interno – ma non è l’unico caso – lo spazio semibuio che ospita questa donna risulta illuminato dalla coscienza vigile e attenta di lei, la cui interiorità brilla del mistero insondabile che la anima: impossibile non sorprendere nella figura femminile rappresentata da Hammershøi la segreta intimità di un dialogo in atto, un dialogo da cui fiorisce quella domanda di senso che non si accontenta di risposte parziali, ma intende reperire, pur nell’aridità di circostanze monotone se non addirittura banali, la vertigine di un compimento perseguito e mendicato.
E così, se quelli di Hammershøi sono dipinti che veicolano una certa malinconia, va detto però che dalla struggente nostalgia di una riconosciuta mancanza si fa largo il silenzio e, dal silenzio, scaturisce e prevale la temprata solitudine di una coscienza matura.
Per questa sua propensione a materializzare il silenzio, l’artista danese venne considerato geniale precursore di Edward Hopper; non è però trascurabile il fatto che egli seppe raccogliere felicemente anche l’eredità di Vermeer, uno tra i più noti e amati pittori olandesi del Seicento. Distanti cronologicamente più di due secoli, le opere di Vermeer hanno elementi comuni a quelle di Hammershøi: in particolare scene di vita quotidiana, dove il tempo viene scandito da attimi di poesia domestica.
Il minimalismo dominante in quella che potremmo definire una pittura di genere, sembra al contempo suggerirci ben altro: dietro e oltre le pareti spoglie, le porte spalancate, la luce naturale che filtra da finestre imponenti, Hammershøi cela un messaggio gravido di significato.
“In quanti luoghi e rapporti perdiamo le ragioni del nostro esserci! Eppure in noi c’è sempre una porta disposta ad aprirsi perché tutto ritorni”, ha scritto recentemente Simone Riva. Mantenere aperta questa porta senza avere la pretesa di chiuderla nel perimetro angusto di una risposta prevista e prevedibile è la forma semplice, ma affascinante che Hammershøi e i pittori del silenzio sembrano voler offrire a noi, distratti protagonisti del terzo millennio: non lasciatevi travolgere dalla turbolenza incalzante di un quotidiano opaco e privo ormai di qualsiasi attrattiva, ma ritrovate piuttosto, dentro ogni circostanza, la voglia di scoprire chi siete e dove state andando.
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