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Home » Esteri » Medio Oriente » CAOS MEDIO ORIENTE/ Dalla Siria agli Houti, perché Israele non ha ancora rinunciato a colpire l’Iran

  • Medio Oriente
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CAOS MEDIO ORIENTE/ Dalla Siria agli Houti, perché Israele non ha ancora rinunciato a colpire l’Iran

Albert Bozo
Pubblicato 5 Maggio 2025
Benjamin Netanyahu durante i lavori della Knesset (Ansa)

Benjamin Netanyahu durante i lavori della Knesset (Ansa)

Il governo di Israele intende proteggere i drusi in Siria dalle violenze di HTS. Ieri un missile houthi ha colpito l’aeroporto di Tel Aviv

A pensar male, nelle sabbie mobili mediorientali, quasi sempre non si sbaglia. E cercare un inquadramento chiaro nella tassonomia locale di gruppi, governi, fazioni, etnie, credo religiosi, è uno sforzo destinato a stemperarsi in una miscellanea confusa, a geometrie variabili di giorno in giorno.

Adesso bisogna parlare di drusi, un gruppo etnoreligioso arabo di dottrina monoteista, vagamente musulmani sciiti ismailiti, senza uno Stato definito, ma distribuiti tra Libano, Israele, Giordania. E Siria.


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Quella Siria che, dopo la defenestrazione del dittatore Assad, si voleva diventata un Paese inclusivo, cosmopolita e panreligioso, con una ricucitura delle fratture e una riconciliazione fortemente annunciata dal nuovo leader autoproclamato premier Ahmad al Sharaa, che era e resta comunque il leader del gruppo qaedista HTS (Hayat Tahrir al Sham).


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Il quale Ahmad fino ad ora ha sempre chiuso gli occhi, se non avallato le barbare scorribande portate avanti dalle milizie jihadiste contro quelli che vengono definiti resti del regime di Assad e apostati: a marzo era toccato alle minoranze alawite, ora i drusi. I massacri compiuti da una galassia di miliziani salafiti sono un segnale evidente che la linea politica sbandierata da Ahmad non è affatto condivisa.

In Siria, Sweida, la principale città drusa, è finora rimasta grossomodo autonoma, in una strenua resistenza sia verso Assad sia verso i guerriglieri salafiti. Ma adesso è sotto assedio. In più, si trova anche a fare i conti con la poco desiderata protezione israeliana, che tutti sanno allo stesso tempo concreta ma anche pretestuosa, vista la manifestata volontà di Tel Aviv di mantenere su tutta l’area di confine israelo-siriano una sorta di terra di nessuno. Da qui i bombardamenti succedutisi su depositi, centri militari, impianti radaristici che l’aviazione delle IDF hanno condotto negli ultimi mesi.


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Lo sceicco Hikmat al-Hijri, autorità della comunità drusa, denunciando i massacri subiti dalla sua gente, sta continuando a respingere ogni ingerenza straniera e a stigmatizzare ogni tentativo di strumentalizzare la difficile situazione.

Ma la “protezione” israeliana dei drusi (che in Israele sono circa 150mila) va oltre: tre giorni fa l’aviazione di Tel Aviv ha colpito a Damasco un obiettivo distante solo pochi metri dal palazzo del presidente siriano. Evidente il messaggio al regime: attenzione alle minacce ai drusi, ma anche attenzione a non rispettare quella che ormai Tel Aviv considera una fascia di sicurezza, a sud di Damasco fino al confine israeliano.

La strategia di Netanyahu è spinta dalla cronica psicosi israeliana dell’assedio (un Paese circondato da forze che dichiarano l’annientamento dello Stato ebraico quale propria ragione sociale, da Hamas a Hezbollah, agli Houti, ai tanti gruppi paramilitari filoiraniani) ma anche dalle recenti manifestazioni che hanno visto scendere in strada una moltitudine composita di drusi israeliani, moltissimi riservisti dell’esercito o attivisti, tutti a chiedere interventi per aiutare i loro confratelli finiti nel mirino dei guerriglieri siriani.

Nel frattempo, nel 577esimo giorno di guerra, e proprio nel 77esimo giorno dell’indipendenza (che cade il 5 di Iyar, tra la fine di aprile e l’inizio di maggio, secondo il calendario gregoriano), Israele si ritrova in lutto per i suoi caduti e preda dell’odio interno per gli ostaggi ancora non liberati, gli scontri non si fermano, anzi: l’IDF ha annunciato il via al piano “piccola Gaza” (con il richiamo di migliaia di riservisti), ossia il rastrellamento e l’acquisizione di sempre più vaste porzioni di territori, con l’evacuazione della popolazione ancora residente verso nuovi centri umanitari, presumibilmente tra i due corridoi Morag e Filadelfia, dove potranno essere distribuiti aiuti e cibo.

In risposta, Hamas l’altro giorno ha diffuso il video dell’ostaggio numero 24, Maxim Herkin, ferito e sanguinante, che si calcola essere uno degli appunto 24 ostaggi ancora in vita. E sempre per replicare alle nuove offensive dell’IDF a Gaza, i ribelli Houthi hanno lanciato ieri l’ennesimo missile balistico contro Israele, che è sfuggito alle difese aeree ed è riuscito a colpire l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv.

Scalo chiuso, ma pochi i danni: quello più concreto, invece, è stato l’affondo del leader del Partito di Unità nazionale (ex ministro israeliano della Difesa) Benny Gantz: “Non è lo Yemen, è l’Iran – ha subito tuonato –. È l’Iran che lancia missili balistici contro lo Stato di Israele e deve risponderne”. Secondo Gantz “il governo israeliano deve svegliarsi, serve una risposta dura a Teheran”. Se serviva una spinta…

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