Sarà perché, quand’ero piccolo, per mesi non l’ho più trovato nel cestino in mezzo alla tavola: assieme al lavoro di papà, anche il pane era scomparso dalla nostra casa. Sarà per quella preghiera, che più la recito e più mi sembra bella, il Pater: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Sarà per quel comando femminile che calava come mannaia sui nostri giochi di fanciulli: “Non si gioca con il pane, bambini!” Sarà, forse, che in quel pane un Dio azzardò fondersi, costringendolo a farsi Maiuscolo. Saranno tante cose, ma a me quel pane calpestato nei pressi di Torre Maura, periferia moderna di una Roma plurimillenaria è stata una sorta di bestemmia scagliata in faccia al Cielo, sbeffeggiando in diretta la faccia degli uomini che, quaggiù, fanno a pugni per un pane. Per una briciola di speranza.
Il pane è gentilezza fatta parola, è l’accoglienza: “Scrivetela sempre con la maiuscola, come il vostro nome” lessi nell’insegna di un caffè nella Russia di qualche anno fa. Per chi ha pane in abbondanza, il pane è al latte, filoncino, a forma di tartaruga o di zoccoletto. È duro, vecchio, pan-biscotto da bagnarsi nel latte, da grattugiare per impanare i petti di pollo. Da giocarsi facendolo mollica. Per chi non ne ha, il pane è la povertà: cruda, bestiale, sofferente.
Che nessuno osi dire “povero è bello”. La povertà non è bella. È generatrice di insicurezza, fa sgorgare fiumi di rabbia, ti fa sentire abbandonato, abbindolato. È bella quando la puoi vivere da benestante; quando, da ricco, puoi concederti il lusso della povertà, farla diventare un brand che faccia tendenza. È come la terra: non c’è nessuna poesia nel tenere la schiena piegata all’ingiù, la terra è un orizzonte di profonda angoscia, precarietà, abbandono. Tramuta in poesia quando te la puoi scegliere come passatempo, hobby di giardinaggio, occasione per scaricare lo stress di una settimana carcerato dentro un ufficio. La povertà, con qualunque vestito essa s’annunci, è sempre un campanello d’allarme. (Ma)donna povertà.
A calpestare il pane è stato chi ha pane: per troppo pane, come per troppo vino, ci si può ubriacare. Ubriachi di troppo pane da diventare rabbiosi verso il pane: da alimento di sussistenza a strumento d’offesa, il companatico diventa fanatico, il pane-spezzato si fa pane-calpestato.
Forse stamattina qualcuno di quelli che hanno calpestato quel pane metterà piede in chiesa, per cibarsi di un pane-spezzato. Torre Maura, per una prospettiva tutta divina, è spazio di città gemellato con Betlemme: in ogni borgata, paese, città svetta un campanile. E lì vicino una pieve: basta quella sagoma per ricordare il gemellaggio a Betlemme che, ironia della sorte, significa “casa del pane”. Calpestare il pane è calpestare la bellezza, la propria terrasanta, il profumo di casa: è tornare ad essere barbari senza più un approdo, naviganti in balia della rabbia.
Che a delle minoranze sia data la possibilità di vivere qua o là, vicino o dirimpetto a noi, da questa parte di città o dall’altra è lecito dibatterne. Calpestare il pane, però, è più che rubarlo. È dire: “è per te, non lo voglio: tienitelo. Ma te lo frantumo sotto gli occhi. Crepa!”
Far morire di fame frantumando il pane in diretta: “Se questo è un uomo”.