Padre Romanelli, parroco di Gaza, racconta la vita di stenti nella Striscia. "Chi non fa nulla è responsabile davanti a Dio"
A piedi per 15-20 chilometri nella speranza di poter ricevere un pacco di viveri che, in teoria, dovrebbe durare tutta la settimana. Per poi magari beccarsi una pallottola mentre si cerca di accedere ai centri di distribuzione, peraltro già chiusi un paio di volte. Si vive così a Gaza, sfidando un territorio devastato, dove continuano i bombardamenti israeliani. Gli aiuti umanitari promessi da GHF, fondazione voluta da americani e israeliani per gestire la distribuzione del cibo, arrivano in pochi punti della Striscia, che la gente non riesce a raggiungere, se non al prezzo di una grande fatica e correndo rischi inenarrabili.
La realtà è che gli aiuti umanitari a moltissime persone continuano a non arrivare. Nel Nord della Striscia, racconta padre Gabriel Romanelli, argentino, parroco cattolico di Gaza, al milione di persone che vive lì non è arrivato niente, e le persone sopravvivono (per ora) razionando al massimo quello che c’è, interrogandosi su un futuro che rimane nero. La comunità cristiana non perde la speranza e resiste grazie alla sua fede, ma in tutto il territorio l’odio è un sentimento diffuso e non è una buona base per ricominciare a vivere.
A Roma intanto Pd, M5S e Avs, hanno raccolto 300mila persone in piazza San Giovanni chiedendo la fine del massacro a Gaza al grido di “Free Palestine” e la liberazione degli ostaggi, così come lo sblocco di tutti gli aiuti umanitari.
Fa discutere la nuova modalità per portare gli aiuti ideata da americani e israeliani. Com’è la situazione adesso? A voi sta arrivando qualcosa?
Qui al Nord di Gaza, dove vivono un milione di persone, non abbiamo ricevuto niente. Anche se qualcuno è andato a cercare il cibo. E nella Striscia ci sono 2 milioni di persone. Ho letto su qualche giornale israeliano che la società che sta gestendo la distribuzione dei beni ha annunciato di aver consegnato circa un milione e mezzo di pasti, ma questo significa praticamente un pasto a persona. Da mesi non entra nessun aiuto umanitario, ciò che arriva non è sufficiente, c’è bisogno di qualcosa di molto più consistente.
Come andrebbe organizzata la distribuzione?
I centri di distribuzione per lunghissimo tempo dipendevano dalle Nazioni Unite, e si trattava di circa 400 strutture, alle quali si aggiungevano i centri delle società internazionali, di privati. Adesso sono attivi due o tre punti, centri di distribuzione che però sono a 10-15-20 chilometri di distanza. Un piano assolutamente insufficiente. Se si apre agli aiuti devono arrivare per forza alle persone: il loro non è un capriccio, ma un bisogno reale.
Quindi la gente deve farsi 20 chilometri a piedi per andarsi a prendere il cibo?
Un centro relativamente vicino a noi, nella zona di Netzarim, è a 10 chilometri. Ce n’è un altro a 20-25 chilometri, più a sud, a Rafah o a Khan Younis. Le persone ci devono andare a piedi o con qualsiasi altro mezzo, in bicicletta per esempio. Pochissimi, in questo momento, possono pagarsi un trasporto: le strade sono disastrate, la vita è diventata costosa e la gente non ha liquidità, non ha soldi, contanti. Quello che ricevono le persone è un pacco che dovrebbe durare per una settimana, basta guardare le fotografie che vengono pubblicate. Occorrono sistemi più realistici.
Come funziona il sistema degli aiuti attualmente? Alla gente viene comunicato dove deve andare a ritirare cibo e altri beni?
All’inizio, quando è stato attivato questo sistema, a uno dei nostri rifugiati, un cristiano, è arrivato un messaggio secondo il quale doveva andare a Rafah, quindi nel sud, a 25-30 chilometri da dove ci troviamo. Poi non è arrivato nessun altro messaggio. Trenta chilometri sono tanti. Se fossimo a Roma significherebbe attraversare tutta la città da una parte all’altra per andare a cercare un pacco di cibo.
In questi momento di cosa dispone la parrocchia?
Abbiamo ancora qualcosa, ma razioniamo tutto e lo distribuiamo alle 500 persone che sono nel nostro compound e a quelle che abitano vicino a noi. Però ogni giorno i beni diminuiscono, sono sempre meno. Nelle ultime ore è stato più difficile pure avere l’acqua potabile, che portiamo nel quartiere: ci sono stati bombardamenti non lontano da qui, la zona non è molto sicura.
La gente di Gaza come reagisce a questa situazione? Che domande si fanno sul futuro?
Questa è la domanda più urgente alla quale bisogna dare risposta, indicando una prospettiva chiara, vera e certa, nel rispetto della vita umana. Potranno vivere qui, nella loro terra? In questo sta il vero motivo di afflizione di questa gente: ogni bombardamento distrugge qualcosa in più, sperimentano ogni giorno il male reale della guerra, ma la cosa che li fa soffrire di più è che nessuno vede la fine di questa situazione. E poi non c’è una sola famiglia che non pianga un morto, che non abbia un ferito.
È così anche per la comunità cristiana?
Abbiamo perso più del 5% della comunità cristiana, una percentuale altissima. Venti di loro sono morti in seguito alle violenze della guerra: bombardamenti dell’aeronautica, cecchini dell’esercito. Nel dicembre 2023 hanno sparato dentro il compound dove erano i nostri rifugiati. E sapevano che qui si trovavano soltanto cristiani.
Il governo israeliano vuole mandare via i palestinesi dalla Striscia. La gente di Gaza vuole andarsene o restare? Cosa ha in mente di fare?
Tutti vorrebbero rimanere nella loro terra, ma tra di loro ci sono diversi modi di pensare, di immaginare il futuro per i loro bambini. Non sarà una scelta libera, la situazione obbligherà a prendere una decisione. Per il momento, comunque, anche quelli che vogliono andarsene non possono: da più di un anno le frontiere sono chiuse. Una situazione piena di contraddizioni. E questo vale anche per i nostri vicini musulmani, per i professori che insegnano nelle nostre scuole.
Alcuni sono partiti all’inizio della guerra, sono andati in Egitto, per esempio. Però vorrebbero tornare. Altri dicono che vorrebbero andare via. Hanno perso il lavoro, la scuola dei loro figli, i luoghi dove andavano anche solo a fare una camminata. Gaza è una città distrutta: restarci sarà molto difficile. Non impossibile se vengono garantite le condizioni minime per sopravvivere. L’aiuto umanitario non è un capriccio: parliamo di cibo, acqua, medicinali, ma anche di ruspe e carburante per ricostruire.
Si può parlare ancora di speranza a Gaza?
Sì. Nonostante tutto io sono credente, sono un sacerdote: la speranza in Dio non crolla. Anzi, se non fosse forte e salda, se non ci fosse la fede, per la comunità cristiana sarebbe impossibile vivere in questo contesto così terribile. Poi c’è la speranza umana: poca, ma esiste.
Deriva dal fatto che nessuna guerra dura in eterno e che cominciano a sentirsi voci dei responsabili del mondo, che almeno si domandano fino a quando potrà continuare tutto ciò. Siamo già oltre 54mila morti, 17mila bambini uccisi, 120mila feriti. Tutto questo non può condurre alla pace. Questa guerra avrà terribili conseguenze per tutta la società, sia palestinese che israeliana. La speranza c’è, tuttavia è difficile in questo momento vedere dei segni concreti.
Lei vede aumentare l’odio, la voglia di vendetta?
Noi siamo la comunità cristiana, siamo discepoli di Gesù Cristo: quello dell’odio è un linguaggio che non capiamo. In tutta la regione ci sono persone che vogliono la pace, che non vogliono arrendersi a una logica di odio, di vendetta, di esclusione del prossimo, ma tanti fanno discorsi contrari. Molte persone, infine, non sentono nemmeno odio, sono talmente rassegnate che aspettano solo la morte.
Dov’è finita la comunità internazionale?
La comunità politica, diplomatica, i poteri che guidano il mondo hanno una responsabilità davanti a Dio e agli altri esseri umani. Ogni essere umano deve essere rispettato, che sia israeliano, palestinese, che non abbia cittadinanza, che sia cattolico, ebreo, musulmano, ateo. È un essere umano, è soggetto di diritti, diritti inalienabili, e se crolla questo, crolla tutto.
(Paolo Rossetti)
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