Non è sua la sceneggiatura. Non è suo il montaggio (di 30 minuti più breve e non approvato). Problemi produttivi che hanno reso il set invivibile e che hanno portato il regista a rinnegare il film. Domino alla fine dei giochi non è un film di Brian De Palma. Quindi al critico non resta che guardare il film e cercare qualcosa di depalmiano in un tale pasticcio.
La trama, scritta da Petter Skavlan, vede un poliziotto subire la perdita del compagno per mano di un terrorista che lo spionaggio internazionale ha reso un doppiogiochista: deciderà di indagare per vendicarsi con l’aiuto di una poliziotta amante della vittima.
Trovare un senso al film così com’è è difficile, la profondità teorica di De Palma è un miraggio (anche pensando a film ritenuti minori come Passion o Femme Fatale, per arrivare a Redacted, tra le sue opere più dense) per cui lo spettatore potrebbe godersi ciò che resta dell’occhio del maestro nella sceneggiatura da seconda serata tv e nella messinscena da straight to video nord-europeo.
Lo zoom sulla pistola che anticipa l’evento fatale, i colori saturi e hitchcockiani dell’inseguimento sui tetti che guarda a La donna che visse due volte, il gioco di montaggio e movimenti di macchina del primo agguato e il gran finale nell’arena della corrida, unico momento in cui oltre alla maniera visiva si senta anche un po’ del cervello di De Palma, tra droni, soggettive da videogame, ralenti estenuati, suspense tirata all’estremo.
Tutto il resto però è davvero abborracciato, con la narrazione spenta che arriva al finale col fiato cortissimo, la regia in vacanza (perché non sarà un film “suo”, ma quelle immagini le ha girate proprio De Palma) e due attori con una chimica ai minimi storici, presi per accalappiare i fan de “Il trono di spade“.
Il vero interesse, esterno al film, è proprio nel modello filmico e produttivo di De Palma e in come, assieme ad altri grandi dropout della New Hollywood come Coppola, sia diventato materiale da serie C, il cui nome serve a nobilitare interessi da provincia dell’impero mediativo, in cui anche la residua maestria può nulla di fronte alla sconfitta di un cinema di genere eppure pensante, alla sparizione di un modo di gestire le riprese, le immagini, il lavoro artigianale su di esse. Tolte le poche zampate del suo regista, Domino è un’involontaria elegia.