Su queste pagine si è dibattuto di retorica, per due millenni vertice della tradizione educativa occidentale. Perché tanta attenzione? Solo un omaggio al passato o la preoccupazione per il futuro? La retorica è un’anticaglia per topi da biblioteca o qualcosa di utile all’intera società civile? Studiando retorica oggi, i ragazzi sarebbero appesantiti da un gravame sterile, o aiutati a crescere e ad affrontare con intelligenza e costruttività le sfide poste dal mondo attuale? Con la retorica oggi, avremmo o no la possibilità di mettere in gioco una maggiore consapevolezza del nostro presente, e una più positiva incisività sul nostro futuro?
Quando nella Firenze del ’53 sulla base dell’analisi dei libri contabili venne prospettata la chiusura delle officine Pignone, il sindaco Giorgio La Pira, appassionato alla sorte di 3mila operai e delle loro famiglie, coinvolse il neopresidente dell’Eni, Enrico Mattei, che riuscì a salvare l’azienda, acquistandola e convertendone la produzione. Decenni dopo Giulio Andreotti commentò l’episodio, dicendo: «Non riesco ancora a capire come vi riuscì. I libri contabili parlavano chiaro». Un medesimo fatto (il fallimento di una realtà industriale) letto e affrontato da due concezioni di ragione diverse: da un lato una razionalità esclusivamente elaborativa, che raccoglie i dati e li analizza (una ragione moderna); dall’altro una ragionevolezza che, mossa da una passione, parte dagli stessi dati e dalla medesima analisi, per vederne un orizzonte, un senso di marcia, una totalità, verso la quale indirizzare l’agire (una ragione allargata). In gioco tra le due concezioni, la vita di circa 10mila persone.
La retorica aristotelica e i suoi epigoni (non l’intero sviluppo storico della retorica) costituiscono l’educazione a una ragionevolezza piena e appassionata al bene dell’uomo, alla sua verità e giustizia, che sono oggettivi, inequivocabili, indiscutibili – come la possibilità di lavorare per quei 3mila operai -, cioè per natura più forti dei loro contrari (Aristotele, Retorica). Tuttavia per realizzarsi, essi necessitano dell’uomo, della sua umanità, che prende corpo in quella modalità esclusivamente umana di essere e di relazionarsi al tutto, che è il linguaggio. Un linguaggio metodologicamente articolato attraverso tutte le componenti di un’ars bene dicendi, che non è solo l’arte di dire bene, ma allo stesso tempo l’arte di dire il bene.
Non a caso la retorica fiorì quando Province vessate da amministratori accusati di corruzione e di appropriazione indebita decisero di difendersi (Cicerone, In Verrem), oppure quando all’indomani della Seconda guerra mondiale, nel collasso generale, fu necessario estendere la razionalità (i mezzi di prova) ai giudizi di valore e al dominio delle azioni, cioè ai criteri che permettono di distinguere tra il bene e il male, tra la giustizia e l’ingiustizia, e ai criteri che motivano l’agire (Perelman e Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation). La retorica fiorì ogniqualvolta furono in gioco la vita e il bene comune di un popolo, là dove essi si giocavano: nel senato, nei tribunali, nelle assemblee pubbliche. E non a caso la retorica al contrario declinò, fino a ridursi a ornato, in epoche di ragione debole, ragione ridotta, ragione parcellizzata.
Per dialogare, discutere e confrontarsi, così com’è necessario in un’era di meticciato di civiltà come la nostra, è sufficiente la dialettica, che è infatti insieme alla retorica un’altra arte liberale. Per portare il nostro interlocutore sulle nostre posizioni, anche subdolamente, anche con la menzogna, anche con il falso (Platone, Gorgia), come spesso oggi fa la comunicazione mediatica, è sufficiente o convincere, cioè far leva sulla coerenza del ragionamento logico, o suadere, cioè far leva su sentimenti disarticolati dalla loro ragionevolezza. In entrambi i casi non serve persuadere, cioè mostrare la bellezza e la verità di una posizione a chi ancora non l’ha intravista, come probabilmente fece La Pira con un Mattei appena insediato in un Ente Nazionale da poco creato.
Per questo la retorica è destinata alla formazione dell’uomo in quanto uomo, della sua umanità, ed è quindi propedeutica ad ogni altro sapere ove il bene comune degli uomini sia implicato. La retorica è necessaria alla formazione di chi si occuperà di politica, di finanza, di comunicazione, o a vario titolo delle norme che regolano la vita di una comunità, tanto che in alcune università anglosassoni Rhetorics è oggi materia d’insegnamento nei corsi di preparazione alla leadership. La retorica è necessaria anche alla formazione di chi si occuperà di scienza, perché il suo fare scienza non rischi di ridursi a scientismo. La retorica è non uno strumento tra tanti, ma l’unico strumento curricolare capace di realizzare l’unità del sapere dietro ogni sua parcellizzazione disciplinare e d’indirizzo.
A nostro avviso, però, sono due le decisioni da prendere prima di ogni seria considerazione circa il ruolo della retorica entro il panorama educativo attuale, e quindi prima di un suo eventuale reinserimento culturale e curricolare. Decisioni da prendere a vari livelli, da quello della responsabilità personale del singolo educatore, sia genitore che docente, fino ai livelli ministeriale e governativo. E cioè: ciò che vogliamo nel futuro del nostro Paese sono dei La Pira e dei Mattei, oppure dei Verre? E se – davvero − vogliamo dei La Pira e dei Mattei, siamo disposti a far la fatica (con tutte le conseguenze che, ad esempio in ambito educativo ma non solo, essa comporta) di riprenderci quell’intelligenza sulla realtà, che solo una ragione allargata può garantirci?
In sintesi la questione della retorica, oggi più che mai, riguarda la possibilità e la capacità della ragione di essere vitale. Una ragione non unicamente moderna, né tantomeno assoluta, sciolta dal reale, e quindi prima asfittica e poi inevitabilmente ideologica, ma una ragione restituita alla sua fisionomia umana integrale, che entra nella realtà attraverso tratti inconfondibilmente umani. La questione della ragione è non quella della sua dizione, o ridefinizione, o riproclamazione in uno scenario di spaesamento generale, piuttosto quella del suo uso. La ragione non è l’oggetto di un dibattito, ma l’unica possibilità a ciascuno di noi data, per leggere fino in fondo la realtà e contribuire a renderla a misura d’uomo, a misura dei suoi bisogni, delle sue aspettative, della sua speranza.