Usciva quarant’anni fa nelle sale statunitensi il film Flashdance di Adrian Lyne, destinato a diventare in breve tempo una delle pellicole simbolo, e anche sintomo, del clima di riflusso socio-politico che l’Occidente ha conosciuto negli anni Ottanta. Felice come semplice connubio di melodramma misto commedia e musical di impianto classico nel prevedibile lieto fine, il film venne presentato in anteprima per il mercato italiano alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia nel settembre di quello stesso 1983.
Come accennato, era in pieno svolgimento la fase di disimpegno delle masse giovanili, e non solo, che da interessi e impegno sul piano ideologico-politico, pubblico e sociale ritornavano alla sfera del privato e dei consumi voluttuari. Inevitabile che ciò abbia comportato un riflesso sulla cultura occidentale in genere, anch’essa allora in pieno riflusso di stampo consumistico e autoreferenziale. Epoca felicemente definita – a posteriori – dell'”edonismo reaganiano”: il film ne rappresenta un interessante capitolo nel campo dello spettacolo d’intrattenimento, quindi della cultura popolare. Il suo enorme successo planetario lo dimostra. Il suo stile anche, coloratissimo e caratterizzato da un montaggio al passo con la vertigine ossessiva della musica: una via di mezzo tra un lungo videoclip e uno spot pubblicitario.
Nella Pittsburgh della grande industria siderurgica, la giovane operaia Alex (Jennifer Beals) appassionata fino all’ossessione di ballo, si allena strenuamente per coronare il suo sogno: entrare nella locale rinomata accademia di danza. Dopo gli immancabili contrattempi, e l’altrettanto immancabile love story, contrastata ma coronata dal lieto fine, la ragazza supererà l’audizione e troverà il successo sperato. Intreccio semplice quanto efficace, perfettamente funzionale alla struttura del musical moderno, seppur con i limiti stilistici suddetti.
Molti e molto spettacolari i balletti, sia singoli che corali, giostrati sulle note di una colonna sonora di notevole qualità. Premio Oscar per la canzone principale, What a Feeling, scritta da Giorgio Moroder e Keith Forsey, portata al successo mondiale, ben oltre quello del film, da Irene Cara. Grande successo ebbe anche un’altra canzone del film, Maniac di Michael Sembello, forse quella che meglio rappresenta lo spirito indomito della protagonista.
Oltre alle canzoni citate, il film lanciò anche la moda degli scaldamuscoli, cui hanno contribuito le coeve lezioni di ginnastica aerobica di Jane Fonda. E non sfugga che questa notazione di colore va nella medesima direzione interpretativa già evidenziata: la Fonda negli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta era una paladina della contestazione giovanile, impegnata in prima persona nelle varie campagne sociali (soprattutto per far cessare la guerra in Vietnam); mentre un decennio dopo la troviamo – sostanzialmente – nel ruolo di imbonitrice di prodotti e servizi per il benessere personale dei rampolli delle classi abbienti. Dall’antimperialismo marxiano all’edonismo reaganiano il passo fu singolarmente breve.
Flashdance fu anche il film delle prime volte (o quasi), poiché fece conoscere al grande pubblico sia la protagonista Jennifer Beals, allora ventenne, che il regista britannico semi-esordiente Adrian Lyne. Questi avrebbe poi diretto altri cult del periodo hollywoodian-reaganiano come 9 Settimane e Mezzo (1986) e Attrazione Fatale (1987), e poi Proposta Indecente (1993) e Lolita (1997). Quest’ultimo, più che un remake del film di Kubrick del 1962 – impossibile confezionare decentemente un remake di qualcosa cui aveva messo mano Stanley Kubrick -, risultò semplicemente un secondo film tratto dallo stesso soggetto (l’omonimo romanzo di Vladimir Nabokov), e nemmeno dei peggiori possibili.
La Beals invece, dopo la sbornia di Flashdance, non ha avuto una carriera hollywoodiana di primo piano, per sua consapevole scelta. Ha preferito prima finire gli studi (laurea in letteratura americana a Yale), per poi proseguire come attrice nel circuito indipendente, comparendo in diverse produzioni di buono ed anche ottimo livello. La ricordiamo comunque, oltre che come protagonista delle serie tv The L Word e The L Word: Generation Q, anche per il cameo cui si è prestata nel primo episodio del morettiano Caro Diario (1993).
Da rimarcare, infine, come la pur brava attrice protagonista, molto adatta al ruolo per la parte melodramma-commedia del film, abbia avuto per le scene di danza ben quattro controfigure (di cui una era un ballerino maschio), tra le quali la ballerina francese Marine Jahan fu la principale. La famosa sequenza in cui Alex si lancia al rallentatore in aria durante il provino, disegnando in controluce un’acrobatica “spaccata”, è stata invece realizzata utilizzando una ginnasta professionista, tale Sharon Shapiro. Questo per sottolineare ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, come il cinema lavori sull’illusione di realtà, come il suo linguaggio tecnico-visivo, basato sul montaggio, si sottragga abilmente agli occhi dello spettatore per lasciargli il gusto, la suspense, il divertimento, l’incanto di una storia ben raccontata da immagini attrattive, fascinose e fiabesche in cui, consapevolmente, perdersi.
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