Per il dato inflattivo Us che verrà pubblicato il 12 aprile 2022 e riferentesi a marzo 2022 in tendenziale sull’anno, si stima un tasso dell’8,9-9,0%, con valore minimo non sotto l’8,7%. Il Consensus Bloomberg di operatori di mercato stima invece l’8,5%.
L’altezza del dato inflattivo odierno e qui stimato mette insieme a questo punto gli effetti dell’inizio e della fine della pandemia, delle sue incertezze sulla domanda interna ed estera degli Stati Uniti e dei disordini e delle strozzature sulla supply chain mondiale; ma è del tutto evidente che su questa base di fatti si siano aggiunti in maniera sempre più ingombrante e severa gli effetti della contrapposizione più serrata, da un anno a questa parte, con la Russia, sfociata da poco più di un mese e mezzo nella guerra aperta in Ucraina.
Al momento ciò che regna sovrano è il disordine degli eventi e il parallelo rincorrersi di progettazioni anti-crisi di ogni tipo e dimensione, e inoltre la prospettiva di voler continuare la contesa con la Russia sulla scorta di una messa in campo e di inasprimento di sanzioni economiche e perfino culturali. Personalmente non credo alla bontà di questo approccio, anzi da quasi un anno a questa parte vado sostenendo la necessità di un nuovo accordo strategico tra Usa e Russia per evitare il caos. Una delle manifestazioni più evidenti e iconiche del caos è l’altezza attuale del dato stimato dell’inflazione di marzo: di fatto il 9%, soglia che identifica la problematica che molti fattori e settori sono del tutto fuori controllo da parte delle autorità monetarie soprattutto.
Si deve infatti ricordare che dal 9-9,5% circa in avanti di tasso inflattivo, combattere lo stesso con le sole manovre dei tassi di interesse e della riduzione di base monetaria diventa arduo e insufficiente, e per questo devono entrare in campo anche le autorità di bilancio pubblico per azzerare eventuali deficit di spesa e in generale per tenere la domanda sotto controllo.
Il motivo per il quale con tassi dal 9,5% di inflazione all’insù le manovre sui tassi di interesse e sulla base monetaria diventano da sole insufficienti e non risolutive dipende dal fatto che per gli operatori finanziari e industriali il tasso di interesse stesso diventa un costo da affrontare adeguatamente, e quindi per tale motivo viene affrontato con una logica di ricarico, che alla fine porta alle variazioni sensibili e non unidirezionali della velocità della moneta; in sostanza, le autorità monetarie, iniziando a perdere il controllo effettivo ed efficace di tale aggregato, entrano nel circolo vizioso che le loro azioni suscitano e possono suscitare retroazioni congiunte e contrastate, non si ha più cioè il controllo completo della situazione; in tali circostanze devono essere le autorità di bilancio che abbattono esse stesse la domanda che alimenta inflazione, iniziando dai disavanzi pubblici meno essenziali nell’ottica della nazione.
Bene, da questo punto di vista se si guarda alla situazione attuale degli Stati Uniti il contesto è serio, impegnativo e preoccupante, perché abbiamo la presenza di un enorme debito pubblico, circa 32.000 miliardi di dollari, disavanzi pubblici continui dell’ordine di un migliaio di miliardi annui e continui disavanzi commerciali.
Tra le altre cose, quest’ultima grandezza è diventata una delle questioni cruciali del momento, e cioè che in tale clima di guerra in Ucraina e contrapposizione con la Russia, il troncare in maniera progettuale le forniture degli idrocarburi russi per l’Unione europea e sostituirle con quantitativi parziali di gas americano contribuirà a minimizzare il disavanzo commerciale statunitense, e per tale via il contributo alla minimizzazione del debito pubblico e in definitiva una ricaduta sensibile sull’abbattimento dell’inflazione; giova però aggiungere che tale lettura macroeconomica risente molto di precise ipotesi e congetture di geo-strategia, che anche personalmente vengono considerate verosimili e robuste; è solamente questione di metodo ricordare che partono da precise ipotesi e giudizi di valore politico.
Vediamo ora un altro lato dove sta impattando il fattore inflattivo e dove al tempo stesso si creano immagini simboliche; parliamo cioè dei rapporti di cambio dollaro-rublo, della quotazione dell’oro e dell’ancoraggio fino a fine giugno del valore di 1 oncia d’oro a 5.000 rubli deciso dalla banca centrale russa; questo appena presentato nella sua essenzialità è uno schema di cross reciproco di prezzi nati dall’attuale guerra sanzionatoria, che contiene in sé maglie enormi di arbitraggio, e pertanto per questa via trasferimenti giganteschi potenziali di ulteriore inflazione nel tessuto degli Stati Uniti: siamo cioè nel pieno di una vera e propria guerra economica, vasta robusta e severa.
In poche parole, il rublo si pone ai limiti esterni dell’attuale sistema dei pagamenti internazionali perché fissa – almeno per ora fino al 30 giugno 2022 – il suo valore all’oncia d’oro, riconoscendo in tal modo all’oro e non più al dollaro il vero status di valuta internazionale di riferimento; basa questa sua azione la Russia sul suo status di super potenza militare e nucleare, e sul fatto altrettanto importante di essere la nazione del pianeta con più risorse naturali di ogni altro Paese, e quindi sul conseguente fatto che contrapposizione sanzionatoria o meno con i Paesi occidentali, ha una domanda di 6 miliardi di persone, più povere sì, ma enormi nei numeri demografici rispetto all’Occidente.
Detto con altra angolazione, se facciamo pari a 100 il Pil mondiale corretto in maniera più o meno credibile con la PPA (parità dei poteri di acquisto) – tenendo conto effettivamente del limite di tale approccio per questioni teoriche non risolvibili una volta per tutte -, si può affermare che il Pil dei Paesi occidentali e dei Paesi più direttamente sotto loro influenza valga 58,5/100, mentre per il resto del mondo siamo a 41,5/100; senza invece considerazione della PPA – approccio che alla fine prediligo di più se troppe sono le aggregazioni medie e le ipotesi più o meno farlocche e generiche della PPA – ci troviamo per i Paesi occidentali e vicinali a 67/100 circa di peso complessivo sul Pil mondiale e di 33/100 per il resto del mondo.
Comunque sia, quel che si vede è che gli aggregati sopra citati se volessero muoversi per troppo tempo in situazioni sfidanti e di scontro, nel medio periodo si farebbero seri mali vicendevoli; in maniera ancora più brusca e spiazzante, si può affermare che l’inflazione attuale stimata in questo intervento per gli Stati Uniti all’8,9.9,0% è l’immagine preoccupante di questi fatti.
E l’altra cosa che viene fuori è l’assoluta inadeguatezza della Fed, ma anche della Bce lasciate sole a se stesse di fronte a questi scenari esogeni e complessi; si può dire in altro modo ancora che nell’attuale situazione, l’azione di politica monetaria della Fed deve diventare sempre più canale di trasmissione delle decisioni della Casa Bianca di finanza pubblica nel contrasto all’inflazione; l’azione della Fed deve cioè massimizzare l’efficacia delle politiche di bilancio e monetarie tese al contrasto dell’inflazione e al contemporaneo approntamento di misure che mitighino crescite più basse o addirittura fenomeni recessivi.
Purtroppo, il momento è negativo ed è anche molto impegnativo preordinare ricadute difficilmente quantificabili; infatti, mai va dimenticato – e questo è un altro aspetto che sottolineo sempre – che gli Stati Uniti sono diventati importanti esportatori di gas, ma per il petrolio a fronte di una produzione interna di circa 11,5 milioni barili giornalieri, ne devono importare circa 10 milioni per soddisfare una domanda lorda di 21,5 milioni di barili giornalieri; lorda perché poi gli Stati Uniti riesportano 3 milioni circa di barili di petrolio; quindi, il fabbisogno netto interno è di circa 18,5 milioni di barili giornalieri che deve essere soddisfatto da 7 milioni netti di importazioni giornaliere; la sicurezza energetica degli Stati Uniti dipende in ultima analisi dal Canada che soddisfa il 60% delle importazioni; ma la sicurezza energetica non libera però dal cappio inflattivo che arriva dalle tensioni internazionali; in effetti, l’altro 40% di import petrolifero, per il 10% è dovuto al Messico e per il residuo 30% a Medio Oriente e Russia, la quale prima dell’embargo contribuiva per una quota del 7% circa.
Questo è lo scenario attuale: scontro economico e strategico in piena regola, che rendendo scarse la disponibilità di risorse non solo fa crescere l’inflazione, ma ne accelera la corsa.
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