Raggiunta la tregua, molto deve essere ancora fatto per risolvere la questione palestinese. Cosa ci lasciano 2 anni di guerra a Gaza
L’azione di Trump, la tregua tra Israele e Hamas che ha consentito il rilascio dei rapiti, ha rappresentato un passaggio storico. Molto è stato scritto e ancora moltissimo sarà detto nei prossimi giorni e mesi, i più difficili, dove si vedrà se i tasselli andranno al loro posto.
Quelle che seguono sono solo alcune note incomplete per provare a individuare alcuni punti importanti, alcune criticità, in questo nuovo scenario di speranza.
1) Nessun contendente del conflitto tra Israele e Hamas può essere sconfitto definitivamente. La loro guerra non può essere totale, può solo essere uno strumento per acquisire vantaggi politici e diplomatici. Se Israele non può essere cacciato dalla Palestina, come pretende Hamas, nemmeno la resa assoluta dei palestinesi è possibile, perché dovrebbe passare da un riconoscimento della sconfitta, ammissione che sta mancando anche adesso.
Eppure sia Hamas che Israele hanno creduto, e detto, di combattere, per citare Carl Schmitt, una guerra discriminatoria, e non limitata. Con due notevoli differenze tra i contendenti. Per i jihadisti palestinesi la vita ha un valore differente da quello che ha nella cultura ebraico-occidentale; da qui la disponibilità alla morte dei militanti e la non premura nei confronti del proprio popolo usato senza riguardo come scudo (anche grazie ad un ben diversa demografia).
Di contro, la forza militare di Israele è irraggiungibile, ma questo contrasto nelle guerre asimmetriche conta moltissimo, come hanno imparato gli Stati Uniti nella guerra del Vietnam e come hanno visto a loro spese gli stessi israeliani. L’aveva detto in altre parole Hegel, si veda la lettura di Kojève della lotta tra servo e padrone riguardo alla diversa disponibilità alla morte degli attori in un conflitto.
Il centro di gravità degli Stati democratici e occidentali sta infatti nell’opinione pubblica interna e internazionale, con la sua sensibilità morale, anche facilmente manipolabile, che rappresenta per il nemico l’obiettivo da colpire. Fatto di cui Israele sembra non aver tenuto conto. Errore gravissimo, visto il latente sentimento antiebraico e antisionista ben radicato nel mondo, erede della propaganda e dei luoghi comuni terzomondisti di sovietica memoria. Si vedano cortei pro-Pal e Flotille varie che attraversano il Mediterraneo nonostante la tregua in atto!
2) L’opinione pubblica occidentale non nota niente della violenza del mondo, non si scandalizza né dei cristiani uccisi in Africa e in Asia, né degli arabi, musulmani, buddisti o africani uccisi in qualsiasi altra parte del mondo, ma trova intollerabili le morti di civili causate da altri bianchi occidentali, vittime loro stessi dell’Olocausto.
Vi è infatti una contraddizione profonda, che produce una dissonanza cognitiva, tra l’identità delle società, tra il modo cioè in cui le società si raccontano, si immaginano, si definiscono, e le azioni degli Stati. E gli Stati democratici, secondo il loro racconto identitario, agiscono solo per difendersi in guerre di necessità seguendo i principi della “guerra giusta”. Affermazione tanto più forte se a prendere le armi è Israele che si vede come un David, vittima dell’Olocausto, contro Golia.
Ma è anche difficile comunicare ai propri cittadini che le modalità dell’azione militare a Gaza non avessero alternative, che questa guerra è stata difensiva secondo i valori della società israeliana. E quando la realtà contraddice, o sembra contraddire – che è uguale sul piano simbolico – il mito, si incrina l’identità di quella società, di quelle dei propri cittadini, e delle relazioni col mondo esterno.
3) Una qualche soluzione al conflitto Medio Orientale può arrivare solo da una internazionalizzazione della soluzione del conflitto. Senza il coinvolgimento diretto dei Paesi confinanti, delle potenze regionali che garantiscano la sicurezza e gli interessi di entrambi i contendenti, ogni accordo è destinato a fallire.
Non bisogna dimenticare infatti i profondi rapporti che legano Gaza e la Cisgiordania alla Giordania, al Libano, all’Egitto, sia in termini di profughi ospitati o per la minaccia di accoglierne di nuovi (forse uno dei motivi principali che hanno mosso l’Egitto a fare pressioni fortissime sull’alleato americano), sia in termini etnico-identitari.
Non solo, il conflitto va visto in un quadro regionale e infatti uno dei limiti maggiori degli Accordi di Abramo era che tagliavano fuori la Turchia. Errore pericolosissimo. Il futuro del Medio Oriente passa solo da una pacificazione del conflitto israelo-palestinese, ma entro una cornice generale di sviluppo regionale. Ed ecco spiegato il perché della presenza dell’India di Modi, dato che l’India è il punto di partenza di quell’India-Middle East-Europe Economic Corridor (IMEC) che arriva fino in Italia e Grecia passando per Israele, Arabia, Dubai. Non sarebbe il caso di inserirci anche Pakistan e Turchia?

4) Internazionalizzazione vuol dire che l’alleato maggiore di Israele, gli Stati Uniti – nonché alleato della musulmana e neo-ottomana Turchia, ma anche amico e finanziatore dell’Egitto e della Giordania, sodale storico dell’Arabia, del necessario ubiquo Qatar, del nucleare Pakistan – si deve caricare non solo della mediazione e della difesa in ultima istanza di Israele, ma anche dell’onere della tutela del nuovo ordine. Pena la messa in discussione del ruolo di superpotenza.
Se gli Stati Uniti vogliono essere visti e percepiti come il surrogato della profondità strategica che manca a Tel Aviv e amici dei Paesi arabi e musulmani, e quindi garanti dell’ordine mondiale, devono essere attivi in prima persona negli equilibri della regione. In altre parole, devono mettere sotto tutela l’area e impedire alzate d’ingegno dei singoli attori. Questa è la sfida principale per gli Stati Uniti e Trump, che si giocano qualcosa di più della reputazione.
5) A dimostrazione che Washington fa sul serio c’è l’intervento a fianco di Israele nella guerra lampo contro l’Iran, in barba a chi voleva un Trump ritirato al di là dell’Atlantico.
6) La dirigenza palestinese deve intraprendere un nuovo corso e cercare una sua legittimità non nella lotta contro l’esistenza di Israele, ma nel perseguimento del benessere e della salute del proprio popolo, intraprendendo una lotta politica e diplomatica pacifica e realista per la conquista dei diritti dei palestinesi. La storia non può essere cambiata, le ragioni e i torti del passato sono svaniti. A un certo punto la memoria in politica è solo un ostacolo.
7) Israele non può permettersi di avere al governo forze messianiche che si propongono come obiettivo il Grande Israele senza porsi il problema degli effetti che tali visioni, con la conseguenza delle occupazioni in Cisgiordania, hanno non solo sul popolo palestinese, ma sugli Stati musulmani e nella comunità internazionale.
8) Per pigrizia, usiamo etichette valide per troppi usi diversi che inducono all’errore. Hamas usa come arma il terrorismo, cioè uccide deliberatamente e in modo efferato civili innocenti, non combattenti, donne e bambini, vecchi. Non rispetta nessuna norma del diritto di guerra, uccide, ma sarebbe meglio dire assassina, i prigionieri dopo averli torturati, maltrattati e detenuti in modo orribile. Ma non è solo un’organizzazione terrorista, non è le BR per intenderci. È molto di più, è un partito, un’ideologia, un’istituzione che organizza il welfare e la vita civile. I futuri gestori della Striscia di Gaza, se non vogliono fallire, devono riuscire a separare il popolo palestinese da Hamas, e devono far emergere all’interno di Hamas, o come si chiamerà, la parte politica.
9) La guerra produce ricchezza. Le organizzazioni militari non istituzionali come Hamas, soprattutto in semi-Stati falliti prima di nascere con economie parassitarie, vivono di guerra e traffici illeciti, dal contrabbando al taglieggiamento, e consentono a chi ne fa parte una via per l’arricchimento e il potere per sé, la propria famiglia e i clan.
La storia è piena di esempi: il Sudamerica con le organizzazioni guerrigliere trasformatesi in cartelli della droga, la valle della Bekaa in Libano. Hamas rientra a pieno nella casistica e non a caso l’ala militare è la più restia alla pace e alla consegna delle armi. Per quei militanti la pace significa la fine del potere economico e dello status sociale.
10) Ultima lezione. Le guerre, piaccia o non piaccia, pur nella tragedia sono costitutive, cioè producono realtà nuove, anche positive. In questo caso, un percorso di pacificazione in Libano, una Siria che sembra più stabile (con molti dubbi), l’Iran ridotto a più miti consigli, e da ultimo rapporti rafforzati tra Paesi sunniti e Stati Uniti, e quindi Israele.
A questi punti potremmo aggiungerne molti altri, e ogni aspetto meriterebbe molta più attenzione, perché per il Medio Oriente si potrebbe dire quello che fu detto per i Balcani. Producono più storia di quanta ne possano digerire.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
