I NUMERI/ Il rischio di oltre 300mila licenziamenti dopo l’anno della Cig

- Giuliano Cazzola

L'Inps nel XX Rapporto recentemente presentato ha stimato che i licenziamenti "mancanti" per via del blocco possono essere valutati in circa 330mila

arvedi (LaPresse)

Il 2020 non è stato solo l’anno del Covid-19. Se sarà ricordato anche per le tutele che hanno consentito all’economia di non essere travolta e ai lavoratori di resistere, spesso a lungo, alle chiusure di tante attività produttive, il 2020 può essere definito l’anno della Cassa integrazione guadagni che ha rappresentato, praticamente, il fondamentale ammortizzatore sociale in continuità di rapporto di lavoro. Il XX Rapporto dell’Inps – lo ripetiamo: una miniera di informazioni preziose che tuttavia non compensano il silenzio sui saldi – conferma l’essenzialità della Cig nelle sue varie forme: “Con lo svincolo dei Fondi di solidarietà dal divieto di erogare prestazioni in assenza di disponibilità finanziarie, con la riattivazione della Cig in deroga (Cigd) per le aziende non assicurate e con il contestuale divieto di licenziamento economico, di fatto i datori di lavoro privati (esclusi i datori di lavoro domestico) sono stati obbligati, per gestire la caduta della domanda, a ricorrere alla sospensione, totale o parziale, dei dipendenti (esclusi dirigenti e lavoratori a domicilio)”. 

Si è reso necessario un intervento di 20 miliardi, perché – come è scritto nel Rapporto – a fronte di entrate che per Cigo (Cassa integrazione guadagni ordinaria) e Cigs (Cassa integrazione guadagni straordinaria) si sono automaticamente ridotte per effetto del ridimensionamento dell’occupazione dipendente (per i Fondi la crescita è dovuta al lento e faticoso avviamento) le uscite, per prestazioni e per contributi figurativi, sono “esplose”, più che decuplicandosi rispetto all’anno precedente. Le uscite, infatti, sono salite da 1,4 a 18,7 miliardi e i beneficiari sono passati da 620mila a 6,7 milioni, con un valore medio pro capite della prestazione (inclusi oneri figurativi) pari a 2.788 euro. 

I dipendenti sospesi e beneficiari di Cig con causale Covid-19 (afferenti sia a Cigo, Fondi e Cigd) sono risultati 6,4 milioni. Il saldo tra entrate e uscite per Cig è stato nel 2020 negativo per 12,4 miliardi mentre nel 2019 era stato positivo per 3,4 miliardi. L’Inps, nel Rapporto, avvia una verifica sugli esiti finali di questa importante operazione finanziaria: una verifica che può essere molto utile a valutare quale potrebbe essere – una volta superato il divieto di licenziamento – l’ammontare degli esuberi che saranno richiesti. 

Poiché a oggi non possiamo considerare conclusa la vicenda Covid-19 – avverte l’Inps -, gli esiti sono ancora “in itinere”: per ora è possibile analizzare l’evoluzione fino al momento per il quale sono disponibili informazioni aggiornate ovvero a febbraio 2021. Dei 6,4 milioni di dipendenti che, per periodi diversi, sono passati per la Cig nell’anno pandemico (marzo 2020-febbraio 2021), quasi 1,5 milioni a febbraio risultavano ancora in Cig parzialmente (fino a un massimo dell’80% di integrazione: 939mila) o in misura rilevantissima (oltre l’80%: 537mila); 3,8 milioni erano occupati e quindi completamente rientrati dalla sospensione; infine 1,1 milioni risultavano essere cessati (per dimissioni, pensionamento, licenziamento, risoluzione consensuale): un cassintegrato su sei nel corso dell’anno pandemico ha quindi – volontariamente o involontariamente – interrotto il rapporto di lavoro per il quale era stato sospeso. Un terzo dei cessati risultava a febbraio ricollocato in altra azienda e quindi ri-occupato. 

I dipendenti “a zero ore” (qui identificati come i dipendenti per i quali l’integrazione ha riguardato il 95% o più delle ore totali lavorabili) erano una quota assai consistente tra i cassintegrati di aprile 2020 (2,414 milioni su 5,419 cassintegrati totali: 45%); successivamente la loro incidenza si è ridotta seguendo il ciclo generale di minor ricorso alla Cig: a luglio i dipendenti a zero ore costituivano il 9% dei cassintegrati; dopo il picco di novembre 2020 (20% dei cassintegrati totali) sono di nuovo scesi e a febbraio 2021 rappresentavano il 7%. 

Soprattutto a gennaio e febbraio 2021 una quota consistente di cassintegrati, pur non sospesi a zero ore, risultava comunque marginalmente impiegata, dato che il rapporto tra ore di Cig e ore totali (ore di Cig + ore lavorate) superava comunque l’80%. 

Complessivamente, quindi, la quota di dipendenti collocati in Cig in misura importante (oltre l’80% dell’orario mensile normale) nei mesi gennaio-febbraio 2021 oscillava intorno al 35-40%. 

D’altro canto, si registra la presenza continua di lavoratori marginalmente coinvolti, in Cig per meno del 20% dell’orario contrattuale: nel corso dell’estate-autunno 2020 circa un terzo dei cassintegrati risultava in tale condizione; successivamente, a partire da novembre, tale quota si è ridotta, oscillando tra un quarto e un quinto dei cassintegrati mensili. 

Anche l’elevata intensità del ricorso alla Cig in un dato mese è comunque un indicatore ancora parziale della rilevanza della sospensione: è necessario, infatti, tener conto anche della continuità in tale stato, lungo diversi mesi. 

La distribuzione dei cassintegrati per numero di mesi di Cig e per quota di Cig sull’orario contrattuale evidenzia che il 50% dei dipendenti è stato in Cig per un massimo di tre mesi: quasi sempre si tratta del trimestre marzo-maggio 2020. 

D’altro canto il gruppo di dipendenti per i quali la sospensione dal lavoro risulta massiccia è identificabile come il gruppo collocato in Cig per almeno 10 mesi e con una quota complessiva di Cig superiore al 60% delle ore lavorabili: si tratta di 310mila dipendenti, per i quali il numero di ore integrate nel periodo osservato ha superato quota 1.000; per circa la metà di essi si registra un’incidenza della Cig di assoluto rilievo, oltre l’80% dell’orario contrattuale. 

Si può presumere che sia questa l’area più a rischio quando verrà a mancare del tutto il divieto di licenziamento. Peraltro il suo ammontare corrisponde a quello derivante da un diverso approccio al problema, contenuto anch’esso nel XX Rapporto. Mettendo a confronto i dati delle risoluzioni dei rapporti di lavoro del 2019 con quelli dell’anno Covid, l’Inps ha stimato che i licenziamenti “mancanti” per via del divieto – rispetto alla fisiologia del mercato del lavoro come documentata dai dati statistici disponibili – possono essere valutati in circa 330mila, per oltre due terzi riconducibili alle piccole imprese (fino a 15 dipendenti). Il che non autorizza a ritenere che essi diventino immediatamente effettivi – sottolinea il XX Rapporto – una volta rimosso il blocco. 

Conteranno, infatti – come sta scritto -, diversi altri elementi, quali l’entità della ripresa e le attese delle aziende sul medio periodo, il possibile ulteriore ricorso alla Cig (sia nella sua versione Covid-19, sia nelle sue versioni ordinarie), l’uso degli strumenti, legislativi e contrattuali, per la gestione degli esuberi, ecc.

Intanto si attende la riforma degli ammortizzatori sociali come la “manna dal cielo”. I dirigenti sindacali – si veda un’intervista a Luigi Sbarra della Cisl – parlano di meccanismi universali su base assicurativa, sia pure con l’intervento dello Stato per le piccole imprese (senza rendersi conto che si tratta più o meno di quanto è ora in vigore, con il ripristino, al bisogno, della Cig in deroga). Proposte più radicali circolano nella Cgil e nei settori della maggioranza a sinistra del Pd. Il punto fondamentale di queste elaborazioni è l’assunzione dei vecchi e nuovi ammortizzatori come alternativi ai licenziamenti, consolidando una sorta di “principio di prevenzione” per il quale prima di poter procedere a licenziamenti il datore deve avere esperito l’uso di tali istituti o mostratone l’inattuabilità.

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