Il fallimento dei Referendum 2025 è quello di non aver affrontato i veri problemi del lavoro: monito di Pietro Ichino sulle scelte errate di Cgil e sinistra
IL FLOP DEL REFERENDUM È (SOPRATTUTTO) NEL NON AVER INTERCETTATO I PROBLEMI DEL LAVORO: L’ACCUSA DI ICHINO
Si sta anche giustamente parlando molto dei risultati dei Referendum 2025 dal punto di vista politico, con il fallimento del quorum e della campagna in pompa magna di Cgil, Pd e sinistra: ma la bocciatura dei quesiti su Lavoro e Cittadinanza andrebbe ulteriormente approfondita per l’occasione effettiva persa da sindacati e politica di provare ad affrontare i (veri) problemi del lavoro in Italia. Lo aveva detto senza mezzi termini ben prima del voto il giuslavorista Pietro Ichino, tra i massimi esperti di lavoro in Italia, quando parlava di Referendum che potevano creare più danni che vantaggi.
Con una visione liberale e riformista che prova a ricacciare – pur venendo da una tradizione politica di Centrosinistra – l’ideologia nella politica e nel lavoro, Ichino in un editoriale apparso ieri sul “Correre della Sera” mostra tutte le lacune dei 5 quesiti presentati dal sindacato di Landini, a partire da come erano proposti e scritti i testi dei Referendum fino ai reali obiettivi politici. In primo luogo è proprio il quesito in quanto tale – dall’1 al 4 – ad aver deluso per la difficile comprensione con contenuti «astrusi» e in alcuni casi – come il primo sui licenziamenti – anche piuttosto «ingannevole» per il modo con cui è stato presentato dalla sinistra e da parte dei media.
Sempre secondo Pietro Ichino, oltre alla risposta deludente dell’elettorato di sinistra all’appello al voto sui Referendum, va registrato come sia pervenuta la sensazione che tali quesiti fossero non tanto “contro” le politiche del lavoro del Centrodestra quanto piuttosto un regolamento di conti contro un Governo passato del Pd, quello dell’ex Premier Matteo Renzi che siglò la riforma del lavoro nota come “Jobs Act”.
Oltre tutto, specifica l’esperto, sul tema scottante della sicurezza sul luogo di lavoro, il Governo Meloni di recente ha modificato la norma che unificava i tre ispettorati competenti, cancellandola rispetto al Jobs Act: se proprio un Referendum poteva essere presentato a sinistra dalla Cgil ecco che poteva concentrarsi ad esempio su questo elemento, piuttosto che porre un quesito complicato e “minimale” come il n.4.
DA DOVE RIPARTIRE E QUALI PROBLEMI IDEOLOGICI STANNO ALLA BASE DI CGIL & CO.
I promotori dei Referendum hanno invece «preferito demonizzare» il Jobs Act fatto dal Governo Renzi piuttosto che affrontare i veri problemi del lavoro odierni: produttività che non cresce, retribuzioni medie insufficienti, pochi investimenti stranieri (anche per cervellotiche regole su giustizia e sicurezza, ndr) e una dei cervelli con l’incapacità italiana di trattenere i migliori talenti, oltre a non attrarne di nuovi dall’estero.
Su questo la sinistra e il mondo operaio/produttivo avrebbe dovuto concentrarsi, ma così non è stato fatto secondo Ichino che pure proviene da quel mondo culturale e politico: non solo, davanti alla arretratezza del sistema tecnologico e dei servizi al mercato del lavoro, nessuno dei quesiti referendari è stato in grado di «correggere le storture del nostro mercato del lavoro».
Davanti ad un sistema come quello ormai attuale dove vi è un eccesso di domanda rispetto all’offerta garantita dalla manodopera, il vero salto in avanti che dovrebbe fare un Paese sarebbe quello di offrire per i lavoratori una scelta tra multiple imprese dove si ha il «trattamento migliore, i migliori servizi e una libertà di scelta effettiva»: per farlo servono politiche del lavoro contrarie all’arretratezza e alle norme “vetuste”, ma di questo non si è occupato minimamente alcuno dei Referendum secondo Ichino.
Un esempio su tutti della fattiva ideologica che ha purtroppo pervaso questa stagione referendaria e politica proviene dalla battaglia lanciata dalla Cgil per ottenere un salario minimo per legge: ebbene, nota puntualmente l’esperto giuslavorista, il medesimo sindacato di Landini che oggi sbraita per quella legge in realtà nel 2016 si oppose con forza e scioperi «contro l’attuazione della norma del Jobs Act» che avrebbe portato a un salario minimo universale.