Lo sport come metafora dell'esistenza nell'ultimo film con protagonista Piefrancesco Favino dal titolo "Il maestro"
“Bisogna saper perdere” cantava un giovanissimo Lucio Dalla a Sanremo nel lontano 1967. Ma nelle competizioni sportive di oggi sembra proprio che sia d’obbligo vincere assolutamente, a tutti i costi. A maggior ragione in una disciplina altamente competitiva come il tennis, oggi sulla cresta dell’onda grazie al favoloso Jannik Sinner, che praticamente non perde mai…
Tanto più interessante e spiazzante risulta dunque l’ultimo film di Andrea Di Stefano, Il maestro, presentato al Festival di Venezia 2025, dove il destino di uno svagato istruttore e del suo diligentissimo giovane allievo sembra sia tristemente quello di perdere.
Favino interpreta Raul Gatti, uno sciamannato ex talento del tennis con pancetta, che deve accompagnare Felice (il concentrato e promettente Tiziano Menichelli), un ragazzino tredicenne fin troppo serio, nell’impresa di diventare campione nei tornei nazionali. Considerate le premesse, però, sembra un’avventura quasi impossibile dal punto di vista sportivo, ma risulterà invece decisamente importante per la crescita umana di tutti e due.
Lo strambo maestro, ingaggiato dal padre di Felice, ha infatti alle spalle un passato glorioso (si vanta di essersi qualificato per gli ottavi di finale al Foro Italico), ma ha sperperato nella vita successi e amori, facendosi travolgere dalla sua fragilità e indolenza caratteriali, al punto da essere ricoverato in ospedale per tentato suicidio. Prova a rilanciarsi nella vita proponendosi appunto come maestro di tennis individuale, ovviamente a prezzi contenuti.
L’offerta viene colta al volo dal padre del tennista in erba Felice, un metodico e parsimonioso ingegnere della Sip, che ha deciso che il figlio diventi un vero campione. Dopo averlo allenato personalmente nelle gare regionali, secondo schemi rigidi e immutabili, raccolti in un preziosissimo quadernetto da lui stesso compilato, lo affida con trepidazione all’ex campione, scovato su un annuncio di giornale.
Inizia così, di torneo in torneo, un viaggio nell’Italia degli anni ’80, con la sua malinconica spensieratezza e facile allegria, che però i due protagonisti non riescono a gustare pienamente, anche perché hanno uno sguardo sul campo, e quindi sulla vita, diametralmente opposto. Raul, imbottito di psicofarmaci, sfodera un sorriso disincantato che nasconde le sue personali sconfitte sportive e affettive, ma a tratti è preda facile del pianto e della depressione. Per reazione agli imbarazzi e alle rigidità di Felice e in fondo per stile di vita acquisito (seppur evidentemente fallimentare), lo sprona alla leggerezza, vuole liberarlo dagli schemi e tutto sommato semplicemente insegnargli a godersi la vita.

Il ragazzino, che nei campionati regionali vinceva seguendo le inflessibili regole imposte dal padre – dieta, flessioni, rigidi orari di sonno, allenamenti programmati e soprattutto gioco sempre in difesa, “perché i giocatori bravi non rischiano”- non capisce proprio la ventata di libertà e frivolezza in cui l’istruttore vuole coinvolgerlo.
I due si guardano, non si capiscono, ma lentamente iniziano a parlarsi davvero e in parte a togliersi la maschera. Felice, sperimentando i suggerimenti del maestro, prova a liberarsi dal giogo paterno, che va ben aldilà delle regoline ossessive seguite pedissequamente. Osa persino andare all’attacco, supera il blocco metaforico di quella linea a fondo campo che, secondo il padre, non deve mai oltrepassare. Forse comincia a intravvedere che potrebbe decidere da solo dove andare, come giocare (anche nella vita?). È davvero un campione come pretende suo papà o solo una “pippa”, come sostiene arrabbiatissima sua sorella, che non potrà andare in vacanza al mare perché i pochi soldi di famiglia sono tutti per lui?
Di fatto però con il suo svagato istruttore alla fine colleziona solo sconfitte, rabbia e fallimenti, che confessa al padre, informandolo sistematicamente al telefono (con gli inesauribili gettoni, di cui lo ha preventivamente rifornito, conservati gelosamente in un sacchetto di plastica). L’avventura è dunque finita, si deve tornare a casa.
Invece proprio a questo punto Felice, quasi fosse improvvisamente cresciuto, decide di non abbandonare Raul, preda di una grave crisi emotiva. Il ragazzino trova il coraggio di scegliere davvero da solo e il maestro improvvisamente ha l’opportunità di fare finalmente i conti con il suo passato inaffidabile di tombeur de femme dal talento sprecato. Ambedue, con le loro fragilità e i loro desideri, si impegnano per una nuova, decisiva partita, che è insieme una sfida per la vita.
Se la prima parte del film Il maestro è piuttosto divertente, e uno spirito divertito aleggia in tutta la pellicola, per esempio sulle note allegre di Cuccurucucù di Battiato, nella seconda parte non mancano momenti di vera commozione. I rimpianti per gli errori del passato (di Raul) o le incertezze del presente (di Felice) si mescolano alla speranza di poter cambiare, riscoprendo la verità di se stessi.
E questo vale per tutti e due, maestro e allievo, che provano a superare la paura di sapersi fragili, aldilà degli inganni da cialtrone dell’uno o delle presunte rassicurazioni delle rigide regole paterne per l’altro.
Paradossalmente, è proprio a partire dal riconoscimento della propria debolezza che si costruisce, anche nel rapporto che dovrebbe essere il più solido, quello tra maestro e allievo. Non vogliamo certo augurarci istruttori falliti, ma piuttosto ricordarci che in ogni relazione ciascuno impara dall’altro, soprattutto se è autentico con se stesso, anche nel riconoscere le proprie mancanze.
Nel film Il maestro è questa l’esperienza vissuta dai due protagonisti, che scorre immagine dopo immagine, con un finale aperto alla speranza.
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