Il nuovo film di Gabriele Mainetti "La città proibita" non è esente da difetti, ma porta aria fresca al cinema italiano

Nel film La città proibita siamo a Roma, nel quartiere Esquilino, verso la fine degli anni Novanta. Marcello, un giovane cuoco della tradizione locale (Enrico Borello), gestisce (sotto stress) il suo affollato ristorante, insieme alla madre (Sabrina Ferilli), dopo l’improvvisa e misteriosa sparizione del padre. Un giorno, in cucina, si presenta con fare violento e minaccioso una giovane donna dai tratti cinesi, alla ricerca disperata della sorella. Marcello deciderà di aiutarla, costretto dalla situazione, e scoprirà ben presto un drammatico epilogo che coinvolgerà sua madre, il loro amico di famiglia Alfredo e i minacciosi cinesi del vicino ristorante “La città proibita”. Chi ha fatto cosa?



La buona notizia è che Gabriele Mainetti, regista santificato di Lo chiamavano Jeeg robot (e Freaks out) continua a esplorare generi e storie, cercando di allontanarsi, per quanto può, dalla grammatica cinematografica all’italiana. Per intenderci, quella grammatica che, da oltre cinquant’anni cerca di reinterpretare l’esilarante commedia provinciale e il rivoluzionario neorealismo della ricostruzione (vanto italiano nel mondo) con risultati ben poco edificanti.



La città proibita è, essenzialmente, un kung fu movie. A memoria (e certamente non negli ultimi 30 anni) non ho mai visto nulla di simile in Italia. Il nostro kung fu è stato Bud Spencer e Terence Hill, con i loro pugni rumorosi senza sangue, né violenza.

La  cattiva notizia è che la sorprendente storia di pestoni e mazzate sguazza nella palude contagiosa della romanità. Contagiosa, quanto invadente, nel mare magno della produzione italiana contemporanea. Fatta di film e serie, in lingua fieramente romana, che urta l’orecchio di mezza Italia, anche quella accogliente e solidale.

Sembra quasi che, nella bolla romana, l’unico modo di concretizzare la verità delle storie debba passare necessariamente attraverso il dialetto di provincia, di strada, di borgata. E questo film non è esente da tutto ciò, costruito attorno all’incrocio tra la mafia cinese, che parla per ideogrammi nella sua quotidiana conquista di territorio straniero, e la malavita romana, che parla in modo sottotitolabile nella sua ordinaria gestione di ricatti, favori e privilegi.



Ciò detto, superato il pregiudizio (e lo straniamento) di questo insolito inciucio cinematografico, La città proibita fluisce generosamente tra le strade della capitale con il taglio prevalente del cinema di intrattenimento. Inutile davvero cercare preziosi significati occulti, pretese riflessioni autoriali o pregiate prestazioni attoriali.

Nel film, in soldoni, ci si picchia tanto e forte, per due ore e venti, alla ricerca della malavita più potente. Per non far mancare niente a nessuno c’è anche un po’ di commedia italiota, un po’ di romance strappalacrime, un po’ di scheletro da grande armadio e quei sani tradimenti che arricchiscono di cinismo e di senso il racconto di Mainetti.

La città proibita, nonostante tutto questo, è promosso a pieni voti, sia per l’operazione audace che importa aria fresca nel Paese, sia per il piacevole intrattenimento da sabato sera, che rifugge fieramente il cinema impegnatissimo (e ben venga che ci sia anche questo…), sia per lo stuolo degli scafati e prestanti attori (e attrici), molti dei quali condivisi dalle fiction trasmesse su Rai e dintorni.

Non mi aspetto Oscar, candidature e nemmeno David di Donatello. Ma, “in quest’epoca di pazzi”, ci serve anche un po’ di leggerezza cafona e un po’ infantile.

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