Il nostro Paese sembra non essere riuscito a sfruttare al meglio il Pnrr per migliorare il proprio mercato del lavoro
Il nostro Paese fra tutti quelli europei ha ricevuto la maggiore dote di risorse nell’ambito del Next generation Eu. Obiettivo dichiarato quello di investire nei diversi settori per operare un’accelerazione nella modernizzazione e digitalizzazione dei servizi nazionali. Un’operazione che avrebbe prodotto un salto di qualità nella produttività di sistema.
A sostegno degli investimenti era previsto anche un piano di riforme che dovevano sburocratizzare e innovare comparti dei nostri servizi che, se non semplificati, rappresentano un freno alla crescita economica e civile della nostra società.
Guardando i risultati a oggi del Pnrr attraverso il solo settore lavoro appare chiaro che qualcosa non ha funzionato, non sta funzionando e i risultati rischiano di rimanere solo sulla carta.
Nell’ultima revisione sull’andamento del Piano, il settore lavoro ha visto una riduzione di circa 800 milioni rispetto alle risorse decise all’avvio. Su un totale di circa 6 miliardi (il totale della Missione 5 “Inclusione e coesione” di 8,4 miliardi comprende interventi sul sociale), la revisione ha un peso significativo.
Sono due le voci significative che portano a questa rivisitazione degli obiettivi. Una parte riguarda investimenti strutturali destinati al potenziamento e modernizzazione della rete dei Centri per l’impiego. L’obiettivo di 500 interventi entro dicembre 2025 è ormai irrealizzabile e ci si fermerà a 280. Il ritardo è imputabile alle lungaggini nell’attuazione da parte delle Regioni e viene accollato all’imprevisto (!?!) aumento dei prezzi in larga parte spinti dal dannoso Superbonus 110%.
Per buona parte si deve al fatto che il settore dei Centri per l’impiego è stato e purtroppo è ancora per larga parte in grado di gestire solo la registrazione burocratica relativa alle politiche del lavoro e manca della formazione manageriale necessaria per gestire politiche attive per la ricollocazione lavorativa. Da qui anche l’incapacità di progettare e programmare gli investimenti necessari.
La parte di risorse perse più grave è però quella tolta dai servizi al lavoro e spalmata verso programmi formativi. Senza nulla togliere all’importanza degli interventi della formazione in una fase di trasformazione dei metodi produttivi si perdono però slancio, impegno e risorse nel creare un sistema di politiche attive del lavoro nel nostro Paese.
Il tema principale emerge dal mancato raggiungimento dei target indicati dalle Regioni e dalla scarsa efficacia delle misure avviate con il programma Gol.
I risultati che si sono ottenuti finora fanno emergere i limiti delle organizzazioni messe in campo da molte regioni, ma anche il mancato impegno per creare un vero e proprio sistema di servizi al lavoro. I punti più deboli del nostro mercato, come noto, riguardano l’accesso al lavoro per giovani e donne. A ciò si devono aggiungere le transizioni lavorative dovute alla perdita di lavoro per obsolescenza delle competenze personali per via delle nuove tecnologie.
I dati resi noti per Gol indicano che è proprio verso queste categorie che il programma ha mostrato le maggiori debolezze. La stragrande maggioranza delle persone prese in carico appartiene alla categoria di disoccupati che possono ricollocarsi velocemente con pochi servizi a sostegno, pochi sono quelli con target con difficoltà crescenti e pochissimi quelli che richiedono un affiancamento fra servizi al lavoro e sostegni sociali.
Avendo dato obiettivi meramente quantitativi per le prese in carico e sui servizi da fornire con limiti rigidi anche laddove si sono raggiunti gli obiettivi quantitativi, non si sono affrontati i problemi che pesano sul nostro mercato del lavoro.
Come rilevato da più parti, la definizione di target e servizi previsti per ogni livello di distanza dal mercato del lavoro è troppo rigido. Il filtro reso obbligatorio della presa in carico operata dai Centri per l’impiego ha burocratizzato inutilmente il percorso di avvio delle politiche di sostegno per le persone. Gli operatori si trovano a fare solo da smistatori verso percorsi formativi e non vengono valorizzati per il risultato conseguito.
Se poi, come successo in molti territori, si è badato a conservare il sistema formativo esistente invece di promuove una formazione mirata al risultato occupazionale si è tornati al vecchio sistema per cui la formazione serve più ad assicurare l’occupazione dei formatori che non a promuovere il nuovo lavoro per chi la frequenta.
Con un meccanismo così rigido il risultato negativo verso le fasce più disagiate di giovani e donne era facilmente prevedibile. Si tende a favorire tirocini e stage non curriculari che hanno scarsa efficacia nel creare occupazione stabile e non inseriscono i giovani al lavoro con un contratto che garantisca fin dall’inizio una loro tutela previdenziale.
Anche per gli avviamenti al lavoro femminili non emerge la capacità di prevedere interventi che tengano conto di correggere il gender gap che pesa ancora troppo sul lavoro femminile. La crescita del part-time involontario pesa per oltre il 70% sulla attività delle donne e sta alla base dei bassi salari che contribuiscono a mantenere il tasso di occupazione femminile al livello più basso fra i Paesi europei economicamente più avanzati.
Due erano gli obiettivi strutturali che il ministero del Lavoro poneva alla base delle scelte per il Pnrr: creare un sistema efficace di servizi al lavoro e dare una base solida alla formazione professionale duale. A oggi, ma ci auguriamo di essere smentiti, si vedono solo alcuni cenni di avvio dei progetti e molti errori di progettazione che non porteranno i risultati sperati.
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