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Home » Lavoro » Sindacati » LE SFIDE DEL LAVORO/ Salari e occupazione, ai sindacati serve una nuova “idea”

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LE SFIDE DEL LAVORO/ Salari e occupazione, ai sindacati serve una nuova “idea”

Natale Forlani
Pubblicato 6 Agosto 2025
Una manifestazione sindacale (Ansa)

Una manifestazione sindacale (Ansa)

Sembra essere necessario un cambiamento delle relazioni industriali nel nostro Paese, alle prese con sfide importanti nel mercato del lavoro

l fallimento dei referendum promossi dalla Cgil, con l’intento di imprimere una svolta alle relazioni sindacali fondata sull’introduzione di nuovi vincoli normativi per la gestione flessibile dei rapporti di lavoro, impone una riflessione sul ruolo delle grandi confederazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro.


Riforma pensioni 2025/ Landini chiede un confronto vero al Governo (ultime notizie 4 dicembre)


Nella sede del recente congresso della Cisl, la relazione della Segretaria generale Daniela Fumarola, confermata nell’incarico, e gli interventi dei Segretari generali della Cgil e della Uil, Maurizio Landini e Paolo Bombardieri, hanno marcato le differenze strategiche tra le tre principali confederazioni sindacali.


Riforma pensioni 2025/ La Uil insiste su versione originaria di Opzione donna (ultime notizie 3 dicembre)


Oggetto della discordia continua a essere il dissenso tra la proposta, avanzata dalla Cisl, di rilanciare il modello della concertazione tra il Governo e le parti sociali per offrire risposte costruttive alle criticità del sistema produttivo e redistributivo, e l’opzione della mobilitazione permanente sostenuta dalla Cgil, per rivendicare un intervento legislativo sul salario minimo legale e per validare la rappresentatività delle organizzazioni sindacali che sottoscrivono i contratti collettivi di lavoro.

Le differenze tra le principali confederazioni dei lavoratori sono per la gran parte di natura genetica. Per la Cisl la contrattazione collettiva rimane il mezzo indispensabile per emancipare le condizioni dei lavoratori e per redistribuire in modo equo il reddito prodotto nell’ambito di un reciproco riconoscimento di ruolo tra le parti sociali. Per la Cgil la contrattazione rappresenta il compromesso necessario per riposizionare il rapporti di potere tra interessi di classe (imprese e lavoratori) per loro natura inconciliabili.


Riforma pensioni 2025/ Nuovo emendamento Fdi per Opzione donna (ultime notizie 2 dicembre)


Maurizio Ladini, segretario CGIL
Maurizio Ladini, segretario CGIL (Foto: ANSA/ANGELO CARCONI)

Le implicazioni ideologiche di queste differenze non sono rimaste circoscritte nel perimetro delle rivendicazioni contrattuali, ma hanno influenzato anche le relazioni con i Governi che si sono alternati alla guida della Repubblica nel secondo dopoguerra: orientate da un approccio pragmatico relazionato agli interessi strettamente sindacali per la confederazione di ispirazione cristiano.cattolica (un approccio condiviso storicamente anche dalla Uil); attento alle ricadute sugli equilibri politici per quella egemonizzata per mezzo secolo dalla corrente sindacale del Partito comunista italiano.

Nonostante le differenze, che hanno alternato periodi di radicale dissenso tra le con altri di forte unità d’azione, il contributo dei tre principali sindacati dei lavoratori alla crescita economica e sociale della nostra comunità nazionale, e al consolidamento delle istituzioni democratiche, è stato notevole. Negli annali vengono giustamente ricordati gli accordi di politica dei redditi degli anni 90 dello scorso secolo, con i Governi Amato, Ciampi e Dini, in un periodo di forte crisi delle istituzioni parlamentari, coincidente con la dissoluzione dei principali partiti della Prima Repubblica. Intese che hanno consentito di contenere l’inflazione, di avviare una stagione di riforme dello Stato sociale e l’adesione dell’Italia alla moneta unica.

Il ricordo nostalgico del periodo della Concertazione tra i Governi e le parti sociali offre specularmente una conferma del progressivo indebolimento del ruolo delle grandi rappresentanze delle imprese e dei lavoratori negli scenari politici e nelle relazioni sindacali degli anni Duemila. La causa può essere attribuita ad alcuni fattori strutturali comuni a tutte le economie dei Paesi sviluppati, a partire dall’apertura dei mercati internazionali e della delocalizzazione di parti rilevanti della produzione. che hanno messo in crisi le politiche dei redditi fondate sulla convergenza degli interessi tra capitale e lavoro.

Ma, nel contesto citato, nel corso degli anni Duemila emerge una specificità italiana rappresentata dal peggioramento degli indicatori relativi all’andamento dei salari e dell’occupazione rispetto alla media dei Paesi sviluppati dell’area Ocse. Un andamento che merita una spiegazione dato che i contratti collettivi di lavoro sottoscritti dalle federazioni aderenti a Cgil, Cisl e Uil , secondo le stime Cnel- Inps, offrono una tutela per oltre il 90% dei lavoratori dipendenti.

Sulle cause del ritardo pesa la mancata crescita della produttività, collegata alla scarsità degli investimenti nelle tecnologie digitali, e sulle competenze delle risorse umane, di una parte consistente dei comparti produttivi e dei servizi, Pubblica amministrazione compresa. L’originalità del caso italiano è motivata anche dalla palese ostilità di una parte rilevante della sinistra politica e sindacale verso il complesso delle politiche europee (la flexsecurity, ideata e sostenuta dagli intellettuali e dai partiti socialdemocratici) che hanno orientato una stagione di riforme del welfare e del mercato del lavoro dei Paesi dell’Ue, con esiti positivi per crescita dell’occupazione e dei salari reali.

Significativo il fatto che, in Italia, l’ostracismo verso le politiche della flexsecurity abbia accomunato la Legge Biagi e il Jobs Act del Governo Renzi (oggetto del referendum abrogativo promosso dalla Cgil) che hanno dato vita agli unici due cicli espansivi dell’occupazione (e dei rapporti a tempo indeterminato) registrati nel ventennio che precede la pandemia Covid-19.

L’interruzione della stagione delle riforme degli anni 90 e la rinuncia al dialogo sociale tra le principali confederazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori ha comportato in via di fatto una perdita di autonomia delle parti sociali e l’ingresso a pieno titolo delle forze politiche, con il relativo corollario di promesse elettorali, nell’arena delle scelte relative alla formazione e alla distribuzione del reddito prodotto. Le lacune del sistema contrattuale, in particolare l’assenza di clausole per la tutela dei salari per i mancati rinnovi dei contratti collettivi e la scarsa diffusione della contrattazione di secondo livello aziendale e territoriale, hanno penalizzato le categorie dei lavoratori più deboli.

L’esito infausto di questa stagione è stato l’enorme aumento della spesa pubblica assistenziale rivolta a sostenere redditi di categorie produttive, persone e famiglie, e persino per compensare i mancati adeguamenti dei salari da parte delle imprese.

Nelle condizioni attuali, la contrapposizione tra i sostenitori della strategia del conflitto permanente e quelli favorevoli ad ampliare il coinvolgimento dei lavoratori nelle scelte delle imprese, non ha molto senso. La solidità futura degli assetti della produzione e della distribuzione del reddito dipendono dalla capacità della nostra comunità nazionale di offrire risposte adeguate ad alcune sfide epocali.

La prima è di natura demografica, collegata al fabbisogno di ricostruire la popolazione attiva per far fronte alla riduzione di circa 5 milioni di persone in età di lavoro nei prossimi 15 anni, e per rendere sostenibile la parallela crescita di circa 2,5 milioni di pensionati e di un’analoga quota di persone non autosufficienti.

La seconda sfida è rappresentata dal deficit di competenze che impedisce di soddisfare la domanda di lavoro disponibile. Allo stato attuale la carenza di lavoratori disponibili, stimata sul 45% della domanda delle imprese, è prevalentemente motivata dal mancato ricambio generazionale per molte professioni esecutive. Ma è una quota destinata ad aumentare per l’impiego delle nuove tecnologie che generano un’obsolescenza aggiuntiva dei profili professionali. La digitalizzazione delle organizzazioni del lavoro dipende principalmente dalla quantità delle risorse umane capaci di trasferire e utilizzare le nuove tecnologie.

Gli investimenti sulle competenze dei lavoratori registrano una buona intensità nelle aziende e nei comparti i che competono a livello globale. Ma risultano del tutto inadeguati in interi settori ad alta intensità di occupazione, in particolare nel turismo, nella ristorazione, nell’intrattenimento, nel lavoro di cura e nei servizi alle persone, dove la redditività delle imprese dipende essenzialmente dal contenimento dei costi del lavoro, dall’utilizzo spinto dei rapporti di lavoro flessibili e, in misura significativa, anche delle prestazioni sommerse.

Sono mercati, con l’aggiunta dell’agricoltura, dell’edilizia e delle attività commerciali, che attivano una forte domanda di lavoratori immigrati. Il dato paradossale di questi mercati del lavoro è il basso impiego dei lavoratori regolarmente occupati con orari di lavoro annui inferiori del 40% rispetto a quelli contrattualmente previsti.

Queste criticità strutturali comportano un sottoutilizzo delle risorse finanziarie, tecnologiche e umane con gli inevitabili riflessi negativi sul reddito prodotto e su quello distribuito. Per contrastare non servono gli scioperi generali, e l’invadenza delle norme legislative sulla regolazione dei rapporti di lavoro. La domanda di lavoro superiore all’offerta di lavoratori disponibili e il ruolo centrale delle competenze dei lavoratori rappresentano una condizione ideale per orientare la bussola delle relazioni contrattuali verso la crescita della produttività e della redistribuzione dei risultati e sugli investimenti per potenziare le competenze dei lavoratori.

Gli interventi rivolti a incrementare l’occupabilità dei lavoratori e per rendere sostenibili le transizioni lavorative assumono un valore analogo a quello della regolazione dei rapporti e delle condizioni di lavoro.

La conciliazione tra gli stili di vita e le condizioni di lavoro (conciliazione con i carichi familiari, invecchiamento attivo, welfare integrativo) sono destinate ad aumentare per la convivenza di 5 generazioni nella formazione della popolazione attiva.

Per soddisfare questi fabbisogni serve un ripensamento del sistema delle relazioni rivolto a potenziare il ruolo sussidiario delle parti sociali e a valorizzare le relazioni nelle aziende e nei territori.

Il futuro delle grandi rappresentanze del mondo del lavoro non dipende dalle concessioni statali, ma dalla loro capacità di generare innovazione sociale.

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