LETTURE/ Khouma: così ho tradotto l’Inferno di Dante in senegalese

- int. Pap Abdoulaye Khouma

Un esperimento unico: l'Inferno di Dante tradotto nella lingua principale del Senegal, il wolof. Artefice dell'impresa è Pap Khouma, in Italia dal 1984

dante_alighieri_arte_michelino_lapresse_2011 Dante Alighieri e la Commedia raffigurati da Domenico di Michelino, 1465 (LaPresse)

Pap Khouma è uno scrittore milanese nato a Dakar, giunto in Italia nel 1984. La sua ultima impresa letteraria, la traduzione in lingua wolof (lingua africana parlata soprattutto in Senegal, ma anche nei paesi confinanti) del primo canto dell’Inferno dantesco è destinata a richiamare l’attenzione anche di un pubblico poco avvezzo a seguire i dibattiti, a volte molto accesi, relativi a problematiche interculturali. Domani 30 luglio il suo testo sarà presentato e letto davanti alla tomba di Dante a Ravenna in una giornata intitolata “Di soglia in soglia”, nel segno di Dante e delle relazioni culturali tra Ravenna e Senegal.

Khouma ha accettato di tradurre Dante consapevole delle non poche difficoltà che avrebbe dovuto superare, perché in fondo si trattava per lui della sfida ricorrente e sempre nuova di misurarsi con gli altri in un confronto autentico, che è poi l’unico modo per essere se stessi. Abbiamo incontrato Khouma nel suo studio a Milano, desiderosi di conoscerlo per capire meglio il suo lavoro e la ricerca che lo anima.

Per l’attività che ha svolto può essere considerato uno scrittore migrante di prima generazione. Si riconosce in questa definizione? Ci potrebbe raccontare i motivi del suo espatrio e la scelta dell’Italia come paese d’approdo?

Sono arrivato in Italia nel 1984, poi sono ritornato in Senegal e nel 1986 sono tornato in Italia di nuovo. Sono rimasto in Italia per caso. Diversamente che per la Francia e la Germania, paesi più ambiti, non occorreva per l’Italia il visto di ingresso. In Italia ho fatto tutti i mestieri possibili. Ho vissuto diverse situazioni: clandestino, regolare, cittadino. Quando ho deciso definitivamente di restare in Italia, ho deciso di imparare l’italiano. Ho dovuto imparare l’italiano da solo. Non esistevano allora mediatori culturali, scuole di italiano per stranieri. Tutte le sere, fino alle tre di notte, studiavo. Il pomeriggio e di sera facevamo i venditori ambulanti. Raccoglievo i giornali la sera nella spazzatura, per leggerli e così imparare a leggere l’italiano. Prima di diventare scrittore mi sono cimentato nel mestiere di giornalista. Scrittore migrante? Immigrato? Senegalese? Non mi interessano tanto le definizioni. Quello che conta è essere qualcosa. Essere uno scrittore. Le motivazioni all’inizio non erano letterarie. Volevo comunicare con gli italiani e rompere un monologo. Giustamente all’epoca gli italiani si facevano delle domande legittime sugli immigrati, ma a rispondere erano altri italiani, nel bene e nel male. Dal mio punto di vista era un monologo.

Lei è una persona colta, che svolge nel nostro paese un’attività di tipo intellettuale. Come si è avvicinato al patrimonio culturale italiano e cosa ha comportato per lei la sua conoscenza?

La scrittura mi ha portato a girare tutta l’Italia, dal Tirolo dove parlavano solo tedesco o un dialetto sud tirolese, alla Sicilia e la Sardegna. Ho partecipato ad incontri nelle carceri, nelle scuole, nelle biblioteche. E poi sono curioso: vado a vedere cosa c’è e chiedo. Conosco meglio l’Italia del Senegal, dove ho vissuto 21 anni mentre qui più di 30. L’altra grande fortuna è stata quella di aver lavorato per 20 anni in una libreria a Milano. Ho letto per mestiere e per piacere, per curiosità. Essendo anche giornalista andavo a fare delle inchieste. Ho collaborato negli ultimi tempo con il quotidiano Metro, perché era l’unico giornale che vedevo in mano agli stranieri ed io volevo comunicare con questa gente. Ho avuto anche l’opportunità di incontrare e frequentare dei maestri della cultura italiana. Io li ascoltavo e poi andavo a cercare le cose nate nel dialogo con loro. Così ho imparato. Posso dire che ho imparato dalla strada.

Oggi viviamo in una società plurale e si discute se conservare o meno una presunta identità pura e quindi rifiutare qualsiasi apporto esterno considerato una contaminazione. Lei come si considera?

Io mi considero un ibrido, ma non è stato facile accettare questo ibridismo. Nei primi anni, per tutti gli spostamenti che ho avuto, dovevo dimostrare alla famiglia e agli amici che ero rimasto senegalese puro. Questo per me era essere fiero delle mie radici. Ma ritornato a casa mia madre e mia sorella mi dicono: Ma come sei cambiato! Io ero cambiato senza accorgermene e senza volerlo. Anche loro erano cambiati, ma non se ne rendevano conto, perché vivevano il loro cambiamento insieme alla loro comunità.

Prima di ricevere dall’Istituto di cultura italiana di Dakar l’incarico di tradurre il primo canto dell’Inferno in wolof, conosceva già Dante? Come si è documentato? Quali difficoltà?

Io credevo di conoscere Dante, perché chi vive in Italia da tanti anni crede di conoscerlo: citato ovunque, vie e piazze dedicate a lui. Ma io non ho studiato in Italia. In Senegal studiamo i poeti della letteratura francese. Quando mi è stato commissionata la traduzione, mi sono confrontato con tanti dantisti, ho studiato edizioni annotate, ho ascoltato letture dantesche. Mi ha spaventato il fatto che le interpretazioni del testo di Dante non sempre concordano. Mi sono sentito quindi addosso una grossa responsabilità, perché avrei tradotto il testo dantesco in una lingua inaccessibile agli studiosi francesi o italiani. Per cui ho preso coscienza che non ero libero di interpretare a mio piacimento. L’altra grande difficoltà consisteva nel fatto che il wolof, mia lingua materna, è la lingua più parlata in Senegal, ma non l’unica. Per cui il wolof parlato contiene parole di altre lingue, anche molti termini francesi, portoghesi e arabi. Ho preso la decisione di tradurre il primo canto dell’Inferno dal testo originale, scritto nel fiorentino letterario del 300 e non dalla traduzione in francese. Dovevo tradurlo in un wolof a cui avrei dovuto togliere il più possibile le parole arabe, francesi e portoghesi. Ma questo non è stato sempre possibile. Ad esempio l’aldilà come parola non esiste in una cultura animista. Esiste nelle religioni monoteistiche. Quando parliamo di aldilà usiamo una parola araba. Altre difficoltà derivano dal necessario adattamento ambientale. Non ci sono lupi in Senegal. Anche se il lupo ha un significato allegorico, devo citare un animale noto nel mio paese. Ho scelto così lo sciacallo, perché gli somiglia. In Senegal non ci sono montagne. Per cui è stato complicato parlare di montagne.

Quando Dante nel primo canto parla di “diritta via” allude a un modo di concepire la vita, come di un cammino verso una meta certa e dell’uomo come un pellegrino. Poi riguardo all’aiuto offerto da Virgilio scrive “mi si fu offerto”. Un aiuto dato da un altro. Come ha fatto ha tradurre queste espressioni?

Io arrivo da una tradizione sufi. Questo mi ha molto aiutato. I sufi hanno scritto poemi in arabo, poi tradotti in wolof. Nella religione musulmana il credente è in rapporto diretto con Dio. L’imam guida solo le preghiere. Noi sufi sunniti abbiamo una guida, come Virgilio. È qualcuno con cui puoi parlare per ritornare sulla “retta via”. Ti dà dei consigli che tu puoi seguire. Qui entra in gioco il libero arbitrio. Dopo devi rendere conto al creatore.

Riguardo alla forma letteraria, è riuscito a riprodurre le terzine dantesche?

Ho dovuto rinunciare alle rime, all’endecasillabo. Sarebbe stato una forzatura. Ho salvato il ritmo. Mi sono richiamato ai poemi sufi senegalesi. I sufi scrivevano in arabo e chi li traduceva in wolof rendeva il ritmo, perché venivano declamati. Ho lavorato molto sul ritmo orecchiando questi canti in wolof, che hanno un contenuto religioso. Mi ha aiutato anche la poesia africana e la tradizione orale, impregnate di ritmo.

Per concludere, cosa ha rappresentato per lei tradurre Dante?

Ho avuto la conferma con Dante che non solo le barriere linguistiche ma anche quelle culturali si possono, se non abbattere, almeno diminuire. Non basta essere radicati nella propria cultura, è necessario anche essere “porosi ai soffi dell’universo” come scrive un nostro poeta. Passando dal fiorentino del 300 al wolof del Senegal io ho trovato questa porosità. Mio figlio non parla il wolof, sua madre è italiana. Mi ha detto: Papà, noi ragazzi nati qui possiamo imparare il wolof attraverso la tua traduzione di Dante? Queste parole mi hanno fatto quasi venire le lagrime.

(Antonia Grasselli)

Desidero ringraziare per quest’intervista Sabina Gerardi (Comitato per gli Incontri esistenziali), Gianni Mereghetti (Associazione Portofranco) e Sandra Federici (Africa e Mediterraneo) a cui devo l’incontro con Khouma in un seminario del progetto Words4link .

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