Raccoglimento, diritto, missione: tre pilastri, tre direttive di vita cristiana e di governo scritte nella biografia di papa Prevost, Leone XIV

All’elezione al soglio pontificio del cardinale Robert Francis Prevost, col nome di papa Leone XIV, sono immediatamente sovvenute due malizie. Dell’ultimo che aveva assunto il medesimo nominativo, Leone XIII, autore nel 1891 dell’epocale enciclica Rerum Novarum, Arturo Carlo Jemolo tratteggiava un profilo piuttosto negativo in Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni del 1948. E Jemolo è giustamente considerato uno dei padri degli studi sul rapporto tra Stato italiano e Chiesa cattolica.



Il fulcro della sua critica era che il papa delle asserite aperture alla questione sociale fosse però un convinto detrattore della separazione tra Stati e Chiese e tra religione e diritto secolare. Ne emergerebbe, in sostanza, il profilo di un pontefice che ha tardivamente compiuto una presa d’atto dei movimenti sociali, non aggiornando con pari adeguatezza la teoria costituzionale pontificia.



E, ancora, considerando la rivendicata formazione agostiniana di Leone XIV, è pure venuto in mente che presbitero agostiniano era stato il padre dell’ultima, vera, grande, scissione nel cattolicesimo occidentale: Martin Lutero.

Singolari combinazioni e, in parte, boutades, se consideriamo che Leone XIII inevitabilmente visse un tempo di spinte radicalmente contrapposte e che peraltro Leone pure si chiamava il confratello di Francesco d’Assisi, così sollecito a secondarne azioni e pensieri da meritarsi l’appellativo, in parte delle cronache, di sua “ombra”.

Non ci sono, insomma, rischi di nuovo confessionismo né di ondivago posizionarsi sulle sfide del nostro tempo.



Quanto alla radice agostiniana, Lutero può esserne ritenuto una particolare quanto epocale “deviazione” traumatica (almeno per il suo tempo). Il Prevost episcopo e studioso è fuori da tali evenienze: la sua tesi dottorale è una bella lettura sistematica dei poteri del priore locale nell’ordine di sant’Agostino; il suo motto è “In Illo uno unum”. Tutti uniti dentro, tramite e attraverso quell’unico Dio fattosi uomo.

Un elemento tipico del conclave, almeno dal secondo Novecento in poi, ma non così occasionale anche molto tempo prima, si è confermato. I nomi ritenuti più prossimi al soglio sono quelli che hanno un peso nella compagine cardinalizia, quelli che forse portano a termine mediazioni e valutazioni condivise, ma non sono per forza quelli che salutano da San Pietro il popolo di Dio: Prevost era considerato tra i nomi di interesse, ma fino al giorno stesso della sua elezione almeno altri tre, quattro, nominativi sembravano, alla percezione pubblica, sopravanzarlo piuttosto nettamente.

E invece i pontificati si costruiscono, si creda o meno allo Spirito Santo, fuori mischia e spesso sorprendendo le attese. Giovanni Paolo II veniva dalla reazione religiosa al socialismo sovietico, ma era personalmente poco noto. Benedetto XVI, per quanto fosse il serbatoio teologico del suo predecessore, anche nelle complesse partite dottrinarie, sembrava l’esatta antitesi di quel pontefice polacco salace, cordialissimo, viaggiatore. E anche Francesco, gravato da anni da problemi respiratori e distante all’epoca dal massimo dibattito teologico-politico, apparve sorprendente, sì, nei modi, ma anche nel nome.

Leone XIV si comprende al momento come figura religiosa nel prisma di tre elementi: il ruolo delle ascendenze culturali monastiche (agostiniana prima fra tutte, ma non solo), la formazione canonistica con successivi incarichi processual-canonistici, l’indefesso lavoro in terre di missione. Al punto che, di là dalle facili battute sulla presenza di Trump alle esequie per Francesco e sulla provenienza da Chicago del religioso di origine franco-ispanica, le opinioni pubbliche cattoliche latino-americane non parlano di un papa a “stelle e strisce”, ma di un nuovo pontefice “peruviano”.

La spinta demografica di molto cattolicesimo osservante è in fondo ancora (e resterà forse per alcuni altri decenni) quella del Sudamerica. Non è un male, purché essa non diventi quella sorta di marchio di fabbrica che tante volte si è rimproverato all’Europa anche quando l’Europa ormai quel marchio aveva perso. Ci sono tante diocesi e conferenze episcopali periferiche, e non astrattamente remote, oggi completamente espunte dai radar (del resto, conclave docet).

C’è molto bisogno di quei tre termini: raccoglimento, diritto, missione. Una Chiesa che agisce se del caso nel silenzio, più che militare nell’altrui rumore; una curia che sappia attuare le riforme che si dà, sobbarcandosi anche la poco redditizia fatica degli adattamenti; testimoniare la fede e capire che spazio oggi esista per parlare di “evangelizzazione”.

Si discute già di un papa “sinodale” e speriamo anche su quello Sua Santità aiuti a far chiarezza nello spirito di fedeli e commentatori: non una disordinata enfasi collegiale, ma davvero un processo di collaboratività decisionale in un comune viaggio tra “Christifideles”.

Parlando di partecipazione femminile, Leone XIV si schierò contro la pretesa di “clericalizzare” le donne: non si fa partecipazione mettendo addosso a chi ne è menomato gli abiti di chi quella partecipazione già esercita. Servono meccanismi un po’ più profondi: una pastorale vera non è quella ossessionata dall’esibizione di un risultato, ma quella che (ri)costruisce un orizzonte di senso secondo giustizia. Buon lavoro, allora, Leone XIV: la strada è tanta, ma tantissimi i popoli della terra che vogliono camminare insieme. In Illo uno unum.

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